Parola a unə monellə - III
La terza puntata di una rubrica in cui lascio la parola a unə di voi. Libri-cacciavite, narrazioni, identità e privilegi. La corsa come pratica di consenso. Oggi lascio la parola a Elena.
Ciao monellə!
Oggi torna finalmente la rubrica “Parola a unə monellə” (potete recuperare la prima e la seconda puntata nell’archivio), e io sono felicissima di lasciare questo spazio in mano a Elena Canovi. Anche Elena fa parte della mia vita onlife, che mi rendo conto essere sempre più numerosa e ricca. Bando alle ciance, si parte!
Ciao Elena! Ti va di dirci un po’ di te? Qualsiasi cosa tu voglia condividere generosamente con me e tutte le persone che leggono questa newsletter.
Ho quarantadue anni, sono originariǝ dell’appennino reggiano ma dal 2015, dopo cinque anni vissuti in Germania, abito in un altro appennino, quello abruzzese, all’Aquila, città alla quale mi sono molto affezionatǝ. Uso per me un linguaggio identity-first: sono una persona autistica, non-binaria e e nello spettro asessuale. Ho fatto studi scientifici (ho un dottorato di ricerca in fisica), ma da un po’ di anni lavoro nel mondo del software e dei dati, nello specifico ora mi occupo di architettura dei dati.
Aggiungo una domanda io - libro del cuore? O l’ultimo che hai letto e ti ha lasciato un segno?
Tra quelli letti ultimamente direi “C’era una volta a Gaza”, di Valerio Nicolosi, un reportage sui suoi viaggi a Gaza, prima del genocidio, e in Cisgiordania, e poi, con ben tredici anni di ritardo, “L’amica geniale” di Elena Ferrante. Aggiungo, entrambi ascoltati in audiolibro, formato che sto apprezzando sempre di più.
Non possiamo che iniziare parlando del tuo podcast, Shirley, il podcast sui libri-cacciavite. Perché si chiama così? Ci spieghi cos’è un libro-cacciavite?
Il nome del podcast è un cognome, quello di Dame Stephanie Shirley, imprenditrice e filantropa che adesso ha 91 anni, nata austriaca e naturalizzata britannica. Quando aveva cinque anni, i suoi genitori, di cui il padre ebreo, riuscirono a fare scappare dal regime nazista lei e la sorella Renate, di nove anni, grazie al Kinderstransport, un’iniziativa per la quale bambine e bambini ebrei venivano mandati in Inghilterra da famiglie affidatarie. Negli anni ‘60 fu tra le prime persone ad avere l’idea di vendere il software, che all’epoca si regalava, e decise di fare lavorare soltanto donne, consentendo loro di lavorare da casa (all’epoca, per programmare, servivano prima di tutto carta e matita, e il telefono per dettare). Dopo un enorme successo imprenditoriale, dagli anni ‘90 si è dedicata esclusivamente alla filantropia.

Mettiamo un attimo in pausa la storia di Dame Stephanie Shirley (ci torno) e saltiamo ai primi giorni di gennaio del 2021: piena pandemia, due settimane di vacanze in lockdown, lontano dalla famiglia d’origine mia e di mio marito. In quel momento di vuoto ho avuto l’idea di creare un podcast sui libri. L’immaginario di riferimento, per i motivi che spiego nel primo episodio (spoiler: c’entra il fatto che mio papà fa il fabbro), mi è stato subito chiaro: quello di un’officina. E da lì è nata l’idea dei di libri-cacciavite: cioè “libri che lasciano chi legge con un mucchio di viti in mano e pezzi da riassemblare, smontano idee e danno gli strumenti per crearsene di nove, magari modificando solo leggermente quelle di prima, o proprio buttandole all’aria”. Dovendone scegliere uno da cui partire, il primo a cui ho pensato immediatamente è stato “Let IT go”, il memoir di Dame Stephanie Shirley.
E a proposito di libri, tu un libro lo rileggi più volte, se ti è proprio piaciuto tanto?
Sì, amo moltissimo rileggere i libri, non solo per “studiarli” analiticamente per parlarne nel podcast o perché magari una prima lettura frettolosa non mi ha fatto notare alcuni dettagli, ma perché sono come specchi: ogni volta che rileggo un libro, mi rimanda indirettamente un’immagine diversa di me e di come nel tempo è cambiato il mio sguardo sul mondo. Vi faccio un esempio: ogni volta che ho riletto “Let IT go”, mi sono trovatə a cambiare atteggiamento, non necessariamente in meglio. Alla prima lettura mi ero appena affacciatǝ al femminismo, partendo, come spesso accade, dalla sua versione più liberal. Perciò leggendo ero rimastǝ folgoratǝ dalla storia dell’imprenditrice di successo, cosa che adesso mi lascerebbe molto più freddǝ. La seconda volta stavo cominciando a ipotizzare di essere una persona autistica, e tutta la parte sul figlio autistico ha cominciato a sembrarmi un po’ problematica, perché si rifaceva a un’idea (sia a livello sociale, sia di definizione medica) molto, molto diversa da quella che abbiamo ora, quindi ho dovuto fare lo sforzo empatico di mettermi nei suoi panni di decenni fa. Ma era anche il momento della pandemia, e tutto il racconto sulla possibilità che già negli anni ‘60 Shirley dava alle sue collaboratrici di lavorare da casa ha assunto un significato completamente diverso, davvero visionario. La terza volta invece mi ha dato da pensare la narrazione che l’autrice-protagonista fa del suo essere stata adottata durante la seconda guerra mondiale, del suo sentire un dovere di riconoscenza per il paese che l’ha adottata e di non dovere “sprecare” l’opportunità ricevuta. Se alla prima lettura non avevo notato niente di strano in quei passaggi, alla terza, pur rispettando naturalmente il sentire della protagonista riguardo a se stessa, il mio punto di vista era cambiato radicalmente. Perché nel frattempo avevo ascoltato e letto altre storie di persone adottate e/o di seconda generazione, tutte diverse ma con un messaggio in comune: l’accoglienza e la cittadinanza non sono termini di uno scambio, ma diritti. E non è un caso se il sedicesimo episodio del podcast sia proprio dedicato a una storia che parla, tra le altre cose, di adozione, in un modo completamente diverso.
Hai da poco pubblicato una raccolta di riflessioni sulla corsa, di cosa ha rappresentato e continua a rappresentare per te. Parli di privilegio, di interesse autistico, e di ascolto del tuo corpo. Ti va di farci un piccolo riassunto anche qui di questi pensieri? O di qualcosa che nel frattempo si è aggiunto al quadro?
Volentieri. Penso che il mio correre sia un privilegio prima di tutto a livello economico (anche solo considerando l’acquisto delle scarpe), di tempo (diverse ore a settimana) e di spazi, che devono essere facilmente raggiungibili, sicuri e disponibili esattamente quando io ho tempo.
E poi c’è una doppia dimensione di transitorietà. La prima ha a che fare con la consapevolezza che in qualunque momento potrebbe succedere a me o a qualche persona a me cara qualcosa per cui potrebbe non essermi più possibile correre, almeno per un periodo (infortuni, malattie, terremoti, vecchiaia, lutti, ...). La seconda dipende dal mio essere autisticǝ. Come sanno bene le mie persone più care, io funziono per passioni: coltivo i miei interessi del momento in modo molto intenso, ma sapendo che possono svanire improvvisamente. Le persone della mia famiglia d’origine sono sempre state da questo punto di vista estremamente accoglienti, non giudicando ma sempre nutrendo le mie passioni, perché sanno che è ciò che mi fa stare bene. La corsa in questo momento è qualcosa che mi dà gioia fare e che si adatta molto bene alla mia personalità, introversa e abitudinaria. Ma, e questo è un punto cruciale, ho ben chiaro che in qualunque momento questa passione potrebbe scomparire, facendo spazio a un altro interesse altrettanto forte, che magari non ha niente a che fare con lo sport. Se infatti domani mi appassionassi alle serie TV coreane o alla pasticceria francese, la mia personalità sarebbe sempre quella, solo che me ne starei prendendo cura in modo diverso, creando abitudini nuove, stando da solǝ in cucina o in salotto invece che al parco.
E poi ci sono altri aspetti per me cruciali. Per esempio, non mi interessa la narrazione salutista per cui una persona dovrebbe correre perché fa bene alla salute. Può essere, non lo metto in dubbio, ma penso che la tutela della salute sia prima di tutto un fatto collettivo e politico, che non deve essere scaricato sul singolo individuo. Né mi interessa l’aspetto competitivo: per come sono fattǝ, io non riesco davvero a capire perché dovrei provare piacere nell’arrivare prima di qualcun’altrǝ, pur rispettando naturalmente chi invece ha una mentalità agonistica.
Uno degli aspetti che amo della corsa è il modo in cui mi fa stare in contatto con le stagioni, dandomi la possibilità di stare fuori e godere della luce, di cui ho forte bisogno per autoregolarmi. E poi correre mi insegna ad ascoltare il mio corpo, notando per esempio come cambi la fatica percepita a fare lo stesso percorso a seconda del livello di stress, quello di ansia, quello di zucchero nel sangue, l’ora del giorno, la temperatura e l’umidità esterna, quanti km ho corso nei giorni precedenti, l’umore.

Rispetto alla narrazione mainstream dello sport come modo per superare i propri limiti, io ho una visione un po’ diversa: per me correre significa mantenere un negoziato interiore costante che quei limiti li ascolta, li prende sul serio e li rispetta. Immaginate un dialogo interiore tipo: “Sento un po’ di stanchezza” “Ok, che ne dici, ci proviamo a correre ancora cinque minuti? Poi vediamo, se la stanchezza è insostenibile ci fermiamo”. La risposta può essere “Dai, forse ancora cinque minuti sì”, ma anche “No, cinque minuti no, facciamo due e poi vediamo” oppure “Cinque minuti ma più lentamente” oppure ancora “No, per oggi basta così”: tutte queste opzioni sono ugualmente valide, perché per me correre non è un esercizio di performance, ma una pratica di consenso.
E infine, per quanto strano possa sembrare, nella corsa vedo una dimensione di cura. Provo a spiegarmi. Qualche giorno fa ho corso la mia prima maratona: come ho raccontato anche in questo post, è stato il risultato di uno sforzo collettivo, non solo di chi ha materialmente organizzato la gara, preparando il mio pacco gara e raccogliendo i miei rifiuti, ma anche del mio allenatore e poi delle persone a me care, che in tutti questi mesi mi hanno permesso di organizzare i finesettimana in base ai miei allenamenti, cucinando per me e aspettando le due e mezza che tornassi, hanno avuto la pazienza di ascoltare tutti i miei infodumping, mi hanno seguito in macchina in percorsi che non mi attentavo a fare da solǝ, mi hanno tifatǝ e incoraggiatǝ. Come ha efficacemente sintetizzato Donata Columbro in un commento a un mio post:
“Correre è uno sport di squadra per gente che ama stare da sola!”
Elena, grazie, per le tue parole, il tuo tempo, il tuo condividere prezioso. <3
Questa rubrica torna presto! Se siete monellə e avete voglia di stare qui, ma io non vi conosco, mandatemi un messaggio :)
Cose che ho letto, visto, sentito
Sono andata al cinema a vedere “Parthenope” di Paolo Sorrentino. Ho molte opinioni a riguardo (obviously ahaha). Parliamone se lo hai visto!
Il #90 di Ojalá è assolutamente necessario da leggere, rileggere, condividere. Parliamo di mestruazioni. Parliamone.
- mi ha colpito parecchio. Non solo perché spiega bene i motivi per cui chi scrive ha deciso di non guardare Anora, ma perché lo fa dentro una cornice di pensiero che mi attrae molto. Ci devo pensare.
Fate ə monellə! Ehi - vvb.
AHHHHHHHHHHHH due delle mie persone preferite al mondo nella stessa newsletter, e ho avuto tempo di leggerla solo adesso! Che bello rileggere Elena che parla di corsa. Per me che ho un rapporto alquanto traumatico con lo sport è quasi catartico. Chissà se prima o poi mi ci avvicinerò con uno spirito positivo. Se succederà sarà sicuramente anche per merito suo.
Evviva le interviste monelle 🤩 Mi piace molto il modo in cui Elena descrive il dialogo con sé stessə mentre corre, senza inquadrarlo in un sistema di performance e traguardi da raggiungere: grazie per questa lettura mattutina, mi ha passato una bella energia 💙