Parola a unə monellə - II
La seconda puntata di una rubrica in cui lascio la parola a unə di voi. Malattia, corpi, violenze di genere online, streghe. Una puntata ricca, umana, che quasi sanguina. A parlare, oggi, è Virginia.
The road is wild and wicked
Winding through the wood
Where all that's wrong is right
And all that's bad is good
Carə monellə,
benritrovatə dentro la rubrica “Parola a unə monellə”, quella in cui io mi faccio da parte, o comunque mi limito a formulare delle domande, e lascio la parola a una di voi.
Tiziana Masoch mi aveva fatto l’onore di inaugurare la rubrica a ottobre, e vi lascio la puntata qui per recuperarla se ve la siete persa.
Oggi la parola va a Virginia Ciambriello, un’altra persona che fa parte della mia vita onlife, e onestamente non mi ricordo nemmeno più come ci è finita. Chissà chi è stato l’anello che ci ha fatto incontrare, e parlare, e affezionarci l’una all’altra, dentro la catena di persone molto belle che conosco “solo” nel virtuale? Chissà. Bando alle ciance, adesso la penna passa a Virginia!

Ciao Virginia, ti va di dirci un po’ di te? Qualsiasi cosa pensi che i lettori e le lettrici di questa newsletter possano voler sapere.
Ciao intanto a te Paolè1 e a tutte le persone monelle! Mi chiamo Virginia e sono una persona meridionale, nata e cresciuta in un paese nell’entroterra di Benevento di circa 2000 abitanti, Bucciano. Sono una persona bisessuale e sono anche una donna con malattia cronica - ho l’epilessia da quando avevo 12 anni. Ho vissuto a Napoli, poi a Bologna, sono tornata giù dai miei genitori e ora vivo a Torino con Sofia, in una casa che ci assomiglia in questo periodo della nostra vita. Sono da un anno freelance - mi occupo di copywriting, linguaggio inclusivo e formazione su accessibilità e inclusione; ho una famiglia fatta di amiche e amici che spesso, negli anni, mi hanno riportata a ritrovare un perché, la mia identità e la mia voglia di uscire allo scoperto.
Aggiungo una domanda io - piatto preferito? Possono essere multipli ovviamente: quelli che li mangi e improvvisamente stai meglio :)
Patate e peperoni. Lo faccio appena posso, ma come lo fa mio padre non mi viene mai. E poi in ordine: pasta patate e provola, pizza, pizza di scarole.
Dentro Fate ə monellə si parla di tanta roba, ma, per forza di cose, fa spesso capolino la malattia. Nel mio caso, il mio cancro al seno. So che la malattia, questa parola e quello che si porta dietro, ha un ruolo importante nella tua vita. Coma la abiti? Come ti fa stare?
Rispondere è difficilissimo, ho già riscritto tre volte quello che volevo dire. Io forse ancora non lo so come mi fa stare. So che per anni mi ha fatto tantissima paura, perché la mia epilessia si manifestava con le convulsioni e le aure con perdita di coscienza.
Le convulsioni sono una roba paurosa, una cosa veramente brutta da vedere ed era questo che mi faceva stare male. Perché io perdo coscienza appena inizia la convulsione, ma il mio corpo diventa altro da me. Inizia a torcersi, inizio a perdere schiuma dalla bocca e tante altre cose: non proprio uno spettacolo bello. Quindi mi faceva paura che gli altri vedessero quella Virginia e non riuscissero più ad abbracciarmi, a vedermi come una persona normale, ma solo come la persona con le convulsioni - nemmeno con l’epilessia.
Ho vissuto addosso questa sensazione per anni, soprattutto durante l’adolescenza. Ho l’epilessia da quando avevo 12 anni, adesso ne ho 28: sono 16 anni che addosso mi lascia segni (fisici e non) e pensieri pesanti. Ho abitato questa malattia in modi altalenanti, quindi. Quando ero una bambina ancora e poi un’adolescente, facevo finta che non esistesse e poi, appena arrivavano le convulsioni - che non avvisano, questo è importante da ricordare - mi ritrovavo a pensare: che vita di merda che ho, come si vive così, ma chi sono io se non una malata. Brutta da vedere, da toccare, da ricordare.
Ho vissuto anche l’essere completamente dipendente dai miei genitori - mia madre non riusciva a lasciarmi andare e nemmeno io lei. Ho vissuto la paura di essere esposta al mondo. Poi però ho provato, anno dopo anno, a vivere davvero da sola: mi è servito per capire come ci fossi io e poi la mia malattia. Ora lei abita con me, non la abito più io. Vivo le mie giornate rivendicando i miei spazi, i miei tempi - senza voler più assomigliare a una persona non malata. Adesso che abito con la malattia, mi perdono molte cose e ne capisco tante. E abbraccio quella persona che sono stata, che ha ragionevolmente avuto una paura enorme.
Siamo corpo. Io lo sapevo già, ma l’ho scoperto ancora di più da quando il mio è cambiato a causa della malattia. Esiste un momento, nella tua vita, in cui anche per te questa cosa si è rivelata con grande potenza? E se sì, che cosa ha significato? Ti va di raccontarcelo?
Non esiste un momento preciso. So di certo che per anni non ho sentito il mio corpo come mio, anzi volevo distaccarmene perché quel corpo in cui ero, era lo stesso corpo che poi aveva le convulsioni. Ho iniziato a usare Instagram in realtà proprio per riprenderlo in mano, il mio corpo: era il 2017 o 2018, credo. Ho iniziato a farmi delle foto, semi-nuda, a parlare di tutte le cicatrici che c’erano (ho portato anche il busto da adolescente e quelle cicatrici sono state ben visibili per tanti anni).
Tanto è cambiato da quel momento, ma di base ciò che mi porto è la capacità di svestire il mio corpo e guardarlo punto per punto, andare a scavare i posti dove mi sono fatta male, i punti dove sono caduta con le convulsioni, le cicatrici di tanti altri racconti che mi sono cucita addosso.
Forse il momento più vicino a oggi, in cui ho capito che siamo corpo e mi sono sentita così fiera di abitarlo, è stato quando sono andata per la prima volta a fare una visita medica da sola. Tra i trasporti e la co-dipendenza con miei genitori, non era mai successo. Mai. In 28 anni di vita. Quando ero sul tram e sono scesa alla fermata, avrei voluto avere la possibilità di uscire fuori di me per guardarmi e per guardare il mio corpo integro che era arrivato lì. È stato bellissimo, mi sono detta: “Ma capisci cosa sei riuscita a fare? Jamm bell”.
Allo stesso tempo, penso a quanto alcuni luoghi siano ostili e discriminanti verso alcuni corpi, alcune comunità marginalizzate: se un luogo non è accessibile, significa che non vuole includerti. Non soltanto che “non è accessibile”. Dovremmo ricordare più spesso che è questione di presa di responsabilità, soprattutto da parte di enti e istituzioni. Questo vale per ogni disabilità.
Sei co-fondatrice de Il Collettivo C.L.A.R.A. Ti va di dirci di cosa si occupa e perché è una realtà importante? C’è un modo, per noi monellə, di supportarla?
Io e altre compagne abbiamo fondato C.L.A.R.A. a marzo 2021. Abbiamo sentito la necessità di creare una realtà che si occupasse di violenze di genere online, un tema enorme di cui ancora poco si parla e ci si occupa: siamo nate - e ancora siamo - online, perché veniamo tutte da varie parti dell’Italia e a oggi offriamo 5 sedute gratuite di supporto psicologico più una consulenza legale gratuita, a tutte le persone che hanno vissuto una violenza di genere online e ne sentono la necessità. Oltre alle persone volontarie, con noi ci sono tre psicologhe e due avvocate.
Quello che per noi è importante è prima di tutto esserci come supporto e come punto di riferimento sicuro per chi vive una delle tante violenze di genere online. Inoltre, è fondamentale per noi sensibilizzare e parlare del fatto che le violenze digitali sono molteplici - si va dalla condivisione non consensuale di materiale intimo fino al cyberstalking2, al deepfake3 e tante altre forme di violenze - e soprattutto che hanno lo stesso peso di una violenza fisica. Il digitale è uno spazio che noi abitiamo, dove intratteniamo relazioni e spendiamo tempo: quel tempo non è finto.
Da alcuni mesi il Collettivo C.L.A.R.A. ha aperto una raccolta fondi per riuscire a sostenere maggiormente chi si rivolge a noi - con percorsi più lunghi, facendoci carico della parte economica: questo è il nostro Ko-Fi per chiunque volesse donare!
Siamo su Instagram come @ilcollettivoclara.
Da poco hai (finalmente!) lanciato la tua newsletter qui su Substack, si chiama Janare e io invito le persone che ci leggono a iscriversi e leggerti. Sento che parlerà tanto di sud, di casa, di tradizioni, di ritrovamenti. Ci spieghi chi sono le Janare e perché hai scelto di chiamare così questo progetto?
Le streghe di Benevento vengono chiamate Janare. La strega a Benevento ha una tradizione e una storia importante, è tanto presente - dal liquore famoso Strega fino alla Strega che è nello stemma del Benevento Calcio.
L’etimologia di Janare potrebbe derivare sia da Dianare, cioè sacerdotessa di Diana che dal latino ianua che significa porta: si credeva infatti che, per scacciare le Janare - considerate streghe malvagie, guarda un po’ - si dovesse mettere davanti alla porta una scopa, un sacchetto di sale o sabbia. Così la Janara sarebbe stata costretta a contare ogni granello; contare l’avrebbe portata a fermarsi fino all’alba e la sua luce, nemica delle streghe, l’avrebbe fatta andar via. Si dice che le Janare si riunissero sotto il sacro albero del Noce alle sponde del Sabato, il fiume di Benevento.
Quando ho deciso che era tempo di portare la mia newsletter nel mondo, il primo nome che mi è venuto in mente è stato Janare e non se n'è andato più; ho pensato a altri nomi, altre simbologia, ma Janare era forte e diceva tanto di me. Nel tempo si è sempre scherzato sul fatto che io e mia zia fossimo Janare, perché eravamo quelle che andavano contro il solito “si deve fare così/si è sempre fatto così”. Ho cominciato a riappropriarmi del termine quando ho capito che nel mondo, strega era colei che non si asserviva al potere, che decideva per sé, che si autodeterminava. Le stesse cose che hanno portato al rogo le streghe di centinaia di anni fa.
Negli ultimi anni mi sono anche avvicinata, grazie a mie amiche preziose e compagne del Sud Italia come me, alla questione meridionale e al femminismo meridionale, un femminismo che pone al centro della lotta femminista anche la lotta all'antimeridionalismo (l'idea che chi è del Meridione sia inferiore, abbia poca cultura, il corollario di discriminazioni che subisci per il solo fatto di essere del Sud Italia). Tutto questo mi ha portata a riscoprire le mie radici e ci ho visto tante analogie con ciò di cui mi occupo oggi: accessibilità, inclusione, linguaggio ampio e user experience.
Dare voce a Janare significa parlare dei temi che più sento affini, non dimenticando mai le mie origini, che per troppo tempo ho denigrato e rinnegato.
Scrivere Janare vuol dire scrivere una nuova storia collettiva in cui possiamo riappropriarci insieme di termini, di storie di presente e passato e andare verso una direzione di cura partecipata. Le Janare che voglio raccontare si riversano in ogni storia che porto, in ciò che vedo e mi bussa nel petto, e accompagnano finalmente anche chi legge - non sono più soltanto mie. Sono nostre.
Non so se ho le parole per dire quanto sono grata a Virginia per il suo tempo, le sue parole, il suo affetto. Virgi, ti voglio bene, e spero di vederti dal vivo presto, di abbracciare il tuo corpo, e di lasciarti abbracciare il mio. Grazie, grazie, grazie. <3
Cose che ho letto, visto, sentito
Non posso non mettervi “The Ballad of the Witches' Road” di Agatha All Along, visto come si è chiusa questa puntata (occhio però che c’è spoiler!). Se avessi una coven di streghe (una congrega insomma), Virginia sarebbe sicuramente compagna di viaggio :)
- che parla di amore, fisicità, abbracci.
- ha scritto un pezzo per Lucy sulla violenza online: Perché la violenza online va considerata violenza a tutti gli effetti. C’è tanto da pensare - “Il problema è serio e per iniziare a risolverlo dovremmo smettere di applicare una netta cesura tra internet e gli altri campi delle nostre vite.”
Spero questa rubrica cresca, se siete monellə (e so che lo siete) e avete voglia di stare in questo contenitore, fatemelo sapere :) Frattanto, fate ə monellə!
Mi fa impazzire che Virginia mi chiama così <3
Traduzione letterale: Molestia informatica. Un comportamento in rete offensivo e molesto particolarmente insistente e intimidatorio tale da fare temere alla vittima per la propria sicurezza fisica.
Una tecnica per la sintesi dell'immagine umana basata sull'intelligenza artificiale.
Questa rubrica ci piace proprio tanto! (Pluralis maiestatis ingiustificato ma volevo dare enfasi)
Amo tutta questa monelleria 💚
Un grazie enorme a Virginia per aver condiviso la sua!