L'arte di morire
Le parole per parlare di cancro e di morte, David Bowie, Chicharrón di Coco, e un pensiero banale quanto sorprendente: la speranza ultima risiede nel significato di ciò che è stata la nostra vita.
We all know how it ends.
While I thought that I was learning how to live, I have been learning how to die.
(Sappiamo tuttə come finisce.
Mentre credevo di imparare come si vive, stavo invece imparando come si muore.)
Le mie dita scorrono piano sulla tastiera del computer. Scrivere questa newsletter costa un po’ fatica, o comunque più fatica del solito, una mano più lenta dell’altra, il corpo che urla pietà, la testa che prova a tenere assieme le fila di una storia lunga sette mesi. I titoli di coda ancora lontani.
L’ultima monelleria ha scatenato tanti pensieri e non poche lacrime. Ho letto i vostri messaggi, pieni di gratitudine e paura, e in tutti - nonostante le differenze e le peculiarità - in tutti brillava una luce, un desiderio, e io ve ne sono molto grata. La conversazione sembra essere iniziata, e oggi proviamo a portarla avanti.
Non sono una guerriera
Inizio dalle parole, e, spero non me ne vogliate, inizio da quelle che usiamo per parlare di cancro (non potrebbe essere altrimenti per me in questo momento della mia vita). Poco dopo aver ricevuto la diagnosi, quando il vortice di paure e sentimenti si è fatto un po’ più sopportabile, ho iniziato a prestare attenzione alle parole intorno a me. A quelle che usavano amicə e famiglia. A quelle che trovavo scritte su siti online o sui pamphlet informativi in ospedale.
Il registro lessicale, che non mi convinceva per niente, era prevalentemente di natura “belligerante”, un registro che facendo un po’ di ricerche sono riuscita a datare al 19711. È l’anno in cui il presidente degli USA Richard Nixon dichiara la “guerra al cancro” (war on cancer), ufficialmente inaugurando e convalidando l'uso di un linguaggio militaristico legato alla malattia che è poi diventato davvero comune, e che ci portiamo dietro dalla bellezza di cinquantatré anni.
Noi persone malate il cancro non lo soffriamo, lo “combattiamo”, “vinciamo o perdiamo la nostra battaglia” contro il cancro, ci chiamano “sopravvissute” (cancer survivors, in inglese) se otteniamo la remissione. Difficilmente ci guadagniamo l’etichetta di guarigione, spesso perseguitate dall’eredità latente della malattia, condannate a vivere con lo stigma e le cicatrici che questa lascia.
Partendo dal principio che ogni persona dovrebbe avere la libertà di scegliere i termini e le metafore da utilizzare per sé stessa2, credo che il linguaggio che usiamo quando parliamo di cancro, questo linguaggio di retaggio bellico, illustri benissimo il disagio che proviamo, come specie e come società, nei confronti della morte e del morire. L’ho detto alle persone che mi sono state vicine dal momento della diagnosi - io non sono una guerriera, non voglio essere chiamata tale, non sto lottando contro niente e contro nessuno, la mia non è una lotta, non è una battaglia.
Come potrebbe mai essere una partita ad armi pari, quella tra me, il mio corpo, e un tumore? E se poi la perdo, questa partita? Significa che non sono stata brava abbastanza? E che significa perdere? Significa morire? Sono pronta ad accettare la morte come mero fallimento del mio corpo, e nulla più?
Penso proprio di no.
Questa metafora del “nemico da combattere” toglie dignità a chi di cancro muore. E io non ho nessun desiderio di pensare alle miə fellow sufferers che muoiono come a “quellə che non ce l’hanno fatta”3.
Ma non solo. È una metafora che rischia di mettere una pressione assurda addosso a chi riceve una diagnosi. Devi essere forte, devi essere più forte (del cancro), devi lottare. Perché essere terrorizzatə non è abbastanza, dobbiamo anche assicurarci di essere eroi ed eroine, mentre la terra sotto i piedi si sposta e niente sembra avere più senso.
Io ho scelto per me una narrazione di tipo diverso. Una in cui provo a chiamare le cose con il nome che hanno. Una in cui l’atto più eroico che sono riuscita a compiere in questi sette lunghi mesi di vita e di malattia, è stato quello di mettere in conto la possibilità della morte - cancro o meno. Una in cui mi sono data il permesso di guardarmi allo specchio e dirmi, più volte al giorno, quasi tutti i giorni: “Se posso vivere bene, allora posso morire bene”.
Dirò una cosa che potrà sembrare molto banale, e che un’amica mi ha detto qualche settimana fa: non è tanto il quando, ma il come. Morire bene, senza rimpianti, senza dolore. Lo dice molto meglio di me
in questo numero della sua newsletter:Il lutto è una merda. Non ci sono lati positivi.
Ma ti insegna tanto.
Un corso intensivo sul tempo che ci appartiene: poco e non quantificabile.
Un corso intensivo su cosa sia spostare a domani la tua felicità: una stronzata.
Un corso intensivo su quanto conti il parere degli altri sulle tue decisioni: un cazzo.
Un corso intensivo su cosa vale davvero la pena: lo decidi solo tu.
Spostare a domani la tua felicità: una stronzata.
Ci penso spesso, di questi tempi. Se posso vivere bene, allora posso morire bene.
Vivere bene, morire bene
È il 10 gennaio 2016 quando David Bowie muore di cancro. Due giorni prima, il giorno del suo 69esimo compleanno, esce Blackstar, il suo ultimo album. Bowie sa che sta morendo, si prepara all’inevitabile, e registrando Blackstar sa di stare lasciando un regalo, un parting gift, un canto del cigno, insomma. Il suo produttore Tony Visconti scriverà di Bowie e Blackstar:
His death was no different from his life: a work of art.
La sua morte non è stata diversa dalla sua vita: un'opera d'arte.
Bowie ha deciso di mostrare artisticamente cosa significava per lui morire, e lo ha fatto con una bellezza disarmante:
This way or no way
You know, I'll be free
Just like that bluebird
Ecco, io non so se riuscirò a morire lasciando un regalo o una memoria di me del genere (un canto del cigno poi), ma mi piacerebbe molto riuscire a morire bene, mentre faccio qualcosa che amo, accanto a qualcuno che amo.
Forse è questo quello che dovremmo fare, mentre viviamo. Provare a vivere bene, così da morire bene.
Un paio d’anni fa scrivevo su Instagram:
La morte di Jon mi ha fatto affacciare su certi mondi, dentro la mia anima, che mi fanno un sacco paura e che sto cercando di integrare. Mi addolora profondamente non essere riuscita a dirgli tutto quello che avrei potuto o voluto. Mi addolora profondamente sapere che non sentirò più la sua risata. Mi manca il suo british accent. Le cose che diceva e come le diceva.
Ma c’è dell’altro. Una nuvola nera fatta di niente e di tutto allo stesso tempo, che mi spaventa moltissimo. Mi spaventa moltissimo l’idea così reale, così vera, così vicina, che le cose finiscano d’un tratto. Che non è solo lasciarsi, dirsi addio, decidere di separarsi da qualcuno o qualcosa. È oblio. È la scena di Coco in cui Chicharrón sparisce per sempre, perché nessuno si ricorda più di lui, non c'è più un cuore pronto a custodirlo, una bocca pronta a narrare le storie della sua vita.
Concludevo dicendo:
“Io non voglio che Jon diventi Chicharrón - io non voglio andar via come Chicharrón”.
Forse con un brutto carattere, o forse di origini troppo povere per potersi permettere una ofrenda (quella che si dona alle persone defunte nel Día de muertos), Chicharrón muore due volte. Va incontro alla morte finale, e scompare per sempre.
Questa cosa mi terrorizza, mi lascia senza respiro.
Vorrei riuscire a tracciare una mappa della mia vita, ogni giorno fino a questo giorno. Un processo complesso e ignoto che prenda le tre dimensioni del mio cuore, e le appiattisca su un tavolo, che costruisca un disegno che spieghi con linee, tratteggi, e colori, tutto quello che è stato finora. Vorrei riuscire a seguire una linea, una soltanto, che attraversi luoghi, persone, sentimenti, malattie, tutto quanto, e che mi conduca al momento ultimo delle cose. Una linea che mi dica che morirò bene, con dignità.
Sherwin Nuland, chirurgo e scrittore statunitense, insegnante di bioetica e medicina, e autore di “How We Die”, ha detto che la dignità che cerchiamo nel morire si realizza in realtà nella dignità con cui viviamo la nostra vita.
Ars moriendi è ars vivendi - l’arte di morire è l’arte di vivere:
The greatest dignity to be found in death is the dignity of the life that preceded it. This is a form of hope that we can all achieve, and it is the most abiding of all. Hope resides in the meaning of what our lives have been.
La più grande dignità che si può trovare nella morte è la dignità della vita che l'ha preceduta. Questa è una forma di speranza che tuttə possiamo raggiungere, ed è la più duratura di tutte. La speranza risiede nel significato di ciò che è stata la nostra vita.
La speranza risiede nel significato di ciò che è stata la nostra vita.
Io questa speranza la cerco, anche nelle giornate più buie, nelle tempeste e nelle maree. Finisco sempre per trovarla nell’amore. L’amore per quello che faccio, per quello che dico. Per le persone che mi sono vicine. L’amore per me stessa, per il mio corpo, per la mia vita. L’amore per le parole che scelgo, quello per i silenzi che preferisco.
Se posso vivere bene, allora posso morire bene.
Forse non morirò splendendo come David Bowie, ma mi dà grande consolazione sapere che persino Chicharrón è andato incontro all’oblio ascoltando una canzone che amava, su un’amaca, e che non era da solo nel momento ultimo delle cose.
Cose che ho letto, visto, sentito
A proposito di comfort show, ho ripreso a guardare “Derry Girls” perché mi fa ridere un sacco e perché amo l’accento del Nord Irlanda. In realtà ho pianto durante l’ultima scena della prima stagione: il conflitto nordirlandese sullo sfondo, Orla e le amiche a ballare sullo step, i Cranberries che cantano “Dreams”. Se premete play, preparate i fazzoletti.
“Un libro spregiudicato, rigoroso e stranamente allegro che in 38 domande e risposte, invita a una sana e necessaria riflessione sulla morte”. Un saggio illustrato di divulgazione dal titolo "Così è la morte?" edito da Logos. Non l’ho letto, ma me l’ha consigliato
e mi fido.Una canzone, anzi due: Hit me with the water (non lo so, se Marco Iacampo suona ancora, ma questa voce me la tengo dentro da dieci anni, e ve la regalo) e F**K all the Perfect People - To pray or not to pray / To sway or not to sway / Jesus died for something or nothing at all / Fuck all those perfect people
Mi raccomando, eh, fate ə monellə!
Disclaimer: le mie ricerche non sono molto approfondite.
Quindi, vi prego, ascoltate le persone e lasciate che scelgano le loro parole.
Leggetevi questo articolo di Elena Panciera sulle parole che (non) usiamo per parlare di morte.
Grazie per le parole che usi con precisa misura, Paola Chiara. E grazie per avermi messo in questa puntata che mi ha mosso tante cose dentro.
Pensa che proprio pochi giorni fa, in un gruppo di lettura di terza media, ci siamo raccontatə il graphic novel "Fantasmi" di Raina Telgemeier: è una storia di sorellanza, respiri da prendere e ricordi da mantenere, e visto che lì tutto gira attorno al dia de los muertos, ci ha fatto andare subito a "Coco" e all'importanza di nominare per ricordare.
Mi sembra che a volte le cose che facciamo e viviamo si colleghino misteriosamente, ed è una cosa molto bella.
Paola grazie per questo lavoro "didattico", per questa formazione.
L'uso delle parole, tutte, il loro peso, l'attenzione al loro significato, sono semi potentissimi.
Se seminati sin dall'inizio, saremo persone che sapranno vivere meglio, o forse vivere in modo più adeguato molte più esperienze.
Se penso a un momento della mia vita, di circa 40 anni fa, mi ritrovo come un bambino che non capiva nulla. Ma per fortuna (paradossalmente) ero bambino. Ma penso alla disperazione di mia madre, che invece era già una donna, e al suo non essere ben formata a certe parole.
Grazie