Eppur si muore
Memento mori, le domande che parlano di morte, e di quando ho capito che David Gnomo sulla montagna, tramutandosi in un albero, stava morendo.
It always seems too soon, until it’s too late.
Ho sempre pensato che dare un nome alle cose fosse uno strumento potente per avvicinarle un po’ a sé, per conoscerle meglio, per esorcizzarle, se necessario. Per creare contenitori di culture, sapienza, vicende umane, tradizioni, storie grandi e belle o tristi e terribili. Le cose esistono, ma indicarle non è mai sufficiente. Per comprenderle, perché diventino discutibili, oggetto di confronto, di ricerca, di crescita, occorre che abbiano un nome.
È per questo che ho deciso di parlare del cancro, con il suo nome e il significato mostruoso che si porta dietro. È per questo che ho deciso di parlare di morte.
Il cancro tramuta la possibilità di morire in probabilità. Lo fa perché il cancro uccide, e così tu vai a guardarti i tassi di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi; lo fa perché devi subire interventi chirurgici che non sono mai senza un rischio; lo fa anche perché le cure sembrano ammazzarti - e quando respiri a fatica, e senti che il corpo ti sta abbandonando, d’improvviso pensi - dev’essere così, la morte.
Memento mori
Ma non importa di quanta salute godiamo, o di quante cure mediche saremo in grado di ricevere. Moriremo tuttə. Il fatto di essere qui, vivə, a scrivere e leggere questa newsletter, implica che un giorno non ci saremo più. Saremo mortə. E non abbiamo la più pallida idea di quando quel giorno arriverà.
E anche se questa è una cosa che sappiamo tuttə, almeno nel nostro raziocinio, è anche una cosa che facciamo tanta fatica a sentire dentro, perché il crudo confronto con la nostra mortalità, la nostra finitezza, e quella delle persone che amiamo, è troppo doloroso per essere nominato. Eppure, se siete degli anni ‘80 come me (o più giovani, anche), sarete cresciutə anche voi guardando cartoni animati tristissimi che avevano quasi sempre bimbə orfanə come protagonistə: Pollyanna, Candy Candy, Heidi, Georgie, Remi (e la lista, ve lo assicuro, è molto più lunga di così). E se ə protegonistə miracolosamente non erano orfanə, qualcuno finiva sempre per morire alla fine del cartone: non dimenticherò mai l’ultimo episodio di David Gnomo1, quando lui e la moglie Lisa salgono sul monte, si salutano a vicenda, e poco a poco si trasformano in un albero di ciliegio. La volpe amica, che sa, che capisce, assiste allo spettacolo in lacrime.
Ci ho messo un po’ a capire che erano mortə e che non sarebbero tornatə più (e non soltanto perché il cartone animato era finito)2. Perché da bambinə non solo non pensiamo alla morte (forse ci pensiamo, ma se azzardiamo domande, fatichiamo spesso a trovare risposte), ma non ne sentiamo nemmeno parlare, e quindi non ne diventiamo avvezzə. Le persone adulte ci proteggono dal momento ultimo delle cose, di quando la vita si spegne, e i corpi rimangono esattamente quello che sono, involucri.
Così, quando cresciamo, finiamo a nostra volta per parlarne pochissimo, di morte, e quando ne parliamo diventa quasi un problema da risolvere piuttosto che un processo da vivere (sì, quest’ossimoro potrebbe suscitare un sorriso, ma spero di diventare più chiara più in là).
Accogliere la morte (anche) per autodeterminarsi
Ma basta una volta, una sola volta in cui la mente si affaccia davvero al pensiero della morte, lo ritrae in tutte le sfumature, lo incastra in un angolo ben preciso, tra la paura, la curiosità, e l’amore, che è fatta. È stato così, per me (assieme a una buone dose di psicoterapia). Allora puoi iniziare a parlare di morte, prima con te stessə, poi con le persone che ami. Perché a un certo punto ti rendi conto che farlo significa anche esplicitare i tuoi bisogni, i tuoi desideri, e, nel farlo, rendere la vita delle persone che ti amano un po’ più semplice, quasi accompagnandole nel lutto, se possibile.
Quando pensi alla morte, e ne parli, dentro una cornice che sia più o meno sana, fatta di paure ma anche di desideri ed equilibri, sgorgano lacrime che hanno un sapore diverso dal solito, forse più salate, e assieme alle lacrime si scatena un fiume di domande.
Quando morirò, che ne sarà del mio corpo? Cosa accadrà alla mia identità digitale? Al mio computer, al mio telefono? Che ne sarà dei miei account social? Chi si occuperà di dirlo ai miei colleghi e colleghe? Che ne sarà delle cose che ho scritto e che non ho ancora pubblicato? Dei miei vestiti? Dei miei oggetti più personali, intimi? Delle cose mie che non vorrei mai condividere con nessuna persona? Chi si prenderà cura di stare vicino a mio marito? Alle persone che più mi hanno amata, in questa vita? Chi le aiuterà a sbrigare le cose più pratiche, burocratiche? Chi si assicurerà che mangino, che dormano, che respirino, nonostante il dolore?
La lista è lunga, lunghissima. Ma farla significa articolare che cosa desideriamo, quali sono le nostre priorità (da mortə, OK, ma pur sempre nostre), che cosa è davvero importante per noi, e non credo ci sia al mondo niente che manifesti più vita, più presenza, di questa cosa qui. Rispondere a queste domande renderà l’idea di morire meno terrificante? (se ci fa paura, dico), o quella di perdere le persone che amiamo meno dolorosa? No, molto probabilmente no. Ma non possiamo fare finta che la morte non abbia nulla a che vedere con la vita. Lo scrive Antonio Tabucchi in “Sostiene Pereira” (uno dei miei romanzi preferiti):
Il rapporto che caratterizza in modo più profondo e generale il senso del nostro essere è quello della vita con la morte, perché la limitazione della nostra esistenza mediante la morte è decisiva per la comprensione e la valutazione della vita.
Non credo si tratti però soltanto di apprezzare e capire la vita in vista della sua finitezza mortale (come a dire - carpe diem), penso si tratti anche di organizzare la vita pensando che un giorno sarà la morte ad attenderci. Certo non possiamo vivere ogni istante della nostra vita consapevoli di dover morire; sarebbe come fissare il sole: riusciremmo a sopportarlo per molto poco e, accecatə, dovremmo distogliere lo sguardo.
Ma accogliere e integrare la morte dentro la vita significa scegliere. E scegliere significa autodeterminarsi.
Allora, a proposito di scelte, ho da poco scoperto che su Google si può decidere come gestire un account inattivo, ad esempio in caso di morte, rispondendo a domande come: dopo quanti mesi vogliamo che Google prenda provvedimenti? Vogliamo che cancelli tutti i nostri dati dopo un certo lasso di tempo? Preferiamo piuttosto che una o più persone fidate facciano un download? Ci avete mai pensato?
Una cosa simile succede per Facebook: possiamo scegliere un contatto erede che gestisca il nostro account commemorativo (dopo il nostro decesso) oppure decidere di eliminarlo del tutto.
Il punto è che possiamo scegliere. E possiamo scegliere ora, mentre siamo vivə.
Ricercando “roba di morte e parole per parlarne” online, ho trovato un gioco che si chiama Hello, a conversation game: un gioco di carte per intavolare una conversazione sulle cose della vita che sono davvero importanti per noi3. Alcune delle domande presenti sulle carte sono: che musica vorresti ascoltare, nel tuo ultimo giorno di vita, se potessi scegliere? Chi non senti da tanto tempo, e vorresti sentire di nuovo, prima della tua morte? Se ti ammali, e non sei più autosufficiente, chi preferiresti ti portasse in bagno? Chi vorresti assolutamente che fosse presente, al giorno del tuo funerale?
Sono domande così banali, eppure così importanti. Delineano confini, esplicitano esigenze, manifestano desideri. Dicono tanto di noi, di noi vivə, un attimo prima della nostra morte.
Non ne parliamo. Ne abbiamo troppa paura.
Eppur si muore. Si muore sempre, e si morirà per sempre.
Allora iniziamo una conversazione, la conversazione. Ridiamo parola alla morte.
Cose che ho letto, visto, sentito
Le mie amiche lo sanno - consiglio a tuttə di vedere “Red, White and Royal Blue” <3 e ora posso anche consigliarvi di leggere il romanzo queer romantico da cui è tratto: come ha detto la mia amica Veronica, “le storie queer salveranno il mondo”.
Ho visto “All of Us Strangers”, e niente, non mi riprenderò mai più. C’è la solitudine, la morte, la bellezza, il trauma. C’è l’amore. C’è un abbraccio rassegnato, forse, ma che non manca di compassione e di tenerezza. C’è un mondo, in questo film, e io ho tantissima voglia di parlarne per ore. Scrivetemi, se lo avete visto!
Ho sentito (anziché leggere, come faccio sempre) questa puntata di che inizia dal concetto di parità, e finisce per spostare l’attenzione verso la cura e la ridefinizione della famiglia e dell’accudimento collettivo. Se mi conoscete un po’, sapete quante corde mi tocchi questa roba qui, nel cuore e nella mente. E se volete sapere perché ho deciso di ascoltare la newsletter anziché leggerla, beh, dovete ascoltarla anche voi :)
Spero a presto, e fate ə monellə!
Ho riguardato l’episodio da adulta, e mi ha colpito profondamente la tranquillità con cui David e Lisa vanno incontro alle ultime ore della loro vita.
Se conoscete un gioco così (o simile) in italiano, fatemi sapere :) che poi non deve essere difficile crearlo a mano, sapendo un po’ le domande che si vogliono costruire.
Grazie per questa puntata preziosa. C'è tanto bisogno di soffermarci a pensare alla morte, e mi sono accorto che negli ultimi anni mi capita molto di più.
Che riconnessione all'infanzia che mi hai fatto fare con "David Gnomo". Ah, ne approfitto per segnalare il bel saggio illustrato di divulgazione "Così è la morte?" edito da Logos: si parte da una ricerca fatta con bambini dai 5 ai 15 anni, ragionando su 38 domande che riguardano la morte.
Pezzo molto bello. Bello bello bello.