Il mio sentire
Un esercizio di identità fatto di grafici a torta. Il punto più alto del mio cielo.
All things are revolving, but there is one star that is not moving.
Un groviglio di filo rosso che traccia una via dentro al cuore. Quest’immagine avevo usato, un paio di mesi fa, per parlare dei miei esercizi di identità. Gli esercizi continuano, e continuano i lavori nel cantiere a cielo aperto del mio cuore nuovo.
Durante un workshop alla mia casetta del cancro ho svolto un esercizio, in particolare, che mi ha aiutata a fissare una o due ancore dentro al petto, una specie di stella polare in una galassia in continua evoluzione. Il punto più alto del mio cielo. L’esercizio prevede il disegno di tre grafici a torta: si parte da tre cerchi, vuoti, e tu devi disegnarci sopra delle fette, una fetta per ogni identità che pensi sia tua, per ogni ruolo, posizione, per ogni “io” della tua vita. Quanto più grande è una fetta, tanto più importante quell’identità. Tre torte, una nel passato, una nel presente, e una nel futuro; una torta per ciascuna di queste domande:
Chi ero prima della malattia?
Chi sono oggi?
Chi vorrei essere in futuro?
Che cosa ho imparato con questo esercizio? Provo a raccontarvelo.
Ho fatto molta fatica a ricordarmi tutti i pezzetti di Paola prima del cancro. Cioè li conoscevo, eh, ma in qualche modo mi ero dimenticata le parole. I buchi nel calendario, e l’asse della tua vita che si raddrizza per far posto a un sacco di roba a cui non avresti mai pensato prima, possono fare questo effetto qui. Una specie di amnesia temporanea. Facevo la data scientist, questo lo so, ma la mia professione quasi non me la ricordo più. Cioè, so ancora programmare, leggo articoli di intelligenza artificiale, so fare robe molto cool con dati e algoritmi. Ma mi rendo conto, solo dopo aver finito di disegnare la mia torta del passato, che nessuna delle fette dice “data scientist”, e non lo diranno nemmeno la torta del presente o quella del futuro. Tempo fa ho smesso di presentarmi dicendo “sono” una data scientist, scegliendo piuttosto il verbo fare: “faccio” la data scientist, o, meglio ancora, “mi occupo” di data science. Questa cosa è venuta fuori nell’esercizio senza nemmeno pensarci troppo; una fetta abbastanza grossa dice qualcosa del tipo: collega, leader, persona che ispira, che a tratti supervisiona. Questo sono, questo ero, questo voglio essere ancora. Mi piace aiutare le persone a fare bene il proprio lavoro. Mi piace accompagnare ə colleghə più giovani nel loro percorso di crescita, professionale e personale. Mi piace risolvere problemi. Mi piace inventare soluzioni. Guardare avanti, immaginare il futuro.
Che poi questa fetta sia fatta di dati e numeri, ben venga, perché io in mezzo ai numeri sto proprio comoda. Ma non solo con loro, ecco.
Un’altra fetta ho fatto meno fatica a visualizzarla, ed è quella della ricercatrice. Della persona che ha deciso di lasciare l’università e creare spazi alternativi di produzione del sapere. È questa la fetta che nel passato era fatta di viaggi, progetti, seminari, advocacy per l’open science, per una conoscenza libera e aperta. Era la fetta fatta di Jon, la persona più monella della mia vita, e del suo amore per l’anarchia del sapere. È - perché in realtà esiste ancora - una fetta fatta di ribellione, ma anche di tantissima perdita. Di cordoglio, di disillusioni, di inganni. Di lasciar andare le cose, certe cose che ti facevano un sacco bene, per poi ritrovarle in altri luoghi più sicuri, più luminosi, più giusti. Più giusti per te.
Tutto intorno, altre fette parlano di Paola sorella, figlia, partner, amante, moglie, amica. Tutte identità che la malattia non ha distrutto, ma che ha certamente cambiato, per intensità e intenzioni. Sono fette che rimangono nel passato, nel presente, e spero fortemente anche nel futuro; un futuro lungo fatto di legami e di modi nuovi di fare comunione, di essere ancora figlia e moglie, amica e confidante. Porto sicuro, e terremoto d’amore.
Nella torta del presente appare improvvisamente una fetta grossa, ma proprio grossa. L’etichetta dice: paziente oncologica. Ed è una fetta che paradossalmente avevo quasi dimenticato e che poi ho inserito di corsa, all’ultimo, scarabocchiando il foglio. Togliendo spazio alle altre fette. La cosa mi fa stare male, scomoda, quasi in imbarazzo. Come ho fatto a dimenticarmene? chiedo a me stessa ma anche alle altre persone presenti in sala, mentre presento i miei grafici a torta. Non essere ridicola, mi rispondo da sola, ti sei solo distratta. La psiconcologa mi fa notare che ho speso molto più tempo a disegnare la torta del passato e quella del futuro, concentrandomi davvero poco su quella del presente. Le chiedo scusi, e che significa questa cosa qui? Lei alza le spalle, come a dire: questo lo devi sapere tu.
Lo so, che non funziona così, ma vorrei tanto che parlasse ancora: si vede dentro le sue pupille, che una risposta ce l’ha, o comunque un’idea, una possibilità, una catena di parole che spieghi, che apra, che schiuda. Ma torniamo alle mie torte, e so che quella risposta dovrò cercarla altrove, in un altro momento.
C’è una fetta invisibile, nelle torte dei miei tempi. Una fetta che non disegno, che non traccio con la penna, ma che vedo comparire, come un alone a riempire tutto lo spazio, una specie di ologramma che pervade ogni identità, tutte le parole, tutti i miei io. È una fetta che parla di sentire, di vivere. Sei una persona che sente, mi dico banalmente mentre parlo del mio passato, del mio presente, e del mio futuro. Lo sei sempre stata, lo sarai per sempre. Sono molto sensibile, e con questo non intendo delicata o fragile, intendo proprio dire che sento tutto, acutamente, nel profondo. Sento con il cuore, con la mente, con la pelle. Sento coi miei occhi, con il mio naso, sento con la mia testa. Sento con i miei nervi scoperti. Con il cuore che si allarga nel petto e se ne va in giro per il mondo. Sento tutto in modo profondo, pungente, vivo.
Sei troppo sensibile. Quante volte mi sono sentita dire questa frase, soprattutto dalle presenze maschili della mia vita (uomini, non me ne vogliate!).
Ma io non so come si faccia, a sentire meno. Sento attraverso gli stimoli del mondo, quelli che scavano buchi nel mio cuore, e lo allargano. Sento attraverso la bellezza dell’arte, quella che mi lascia senza fiato, sento attraverso le mie lacrime, sento nelle mani che stringo. Sento nei dettagli degli spazi che abito, e sento nei dettagli delle mie relazioni. Sento attraverso i cuori che attraversano la mia vita. Sento i battiti di ogni cuore. Sento attraverso i miei esercizi di identità, nella continua ricerca di un senso più profondo, di una consapevolezza più matura, di una parola che sia la mia parola. Sento persino negli stimoli del mondo. Sento attraverso i suoni, i rumori, le luci; e a volte è tutto troppo e vorrei avere una manopola, un pomello, qualcosa per abbassare il volume. Quello che arriva da fuori, e quello che arriva da dentro, dalla mia vita interiore, così ricca e complessa da mandarmi spesso fuori di testa.
Mi interrogo su questa nuova identità. Nuova eppure vissuta, conosciuta. Mi faccio domande. Forse sono sempre stata una persona altamente sensibile, mi dico improvvisamente, in un pomeriggio d’autunno, dopo aver chiesto a Google robe del tipo: è normale piangere davanti a un quadro? è normale avere mille poesie in testa recitate in silenzio una dopo l’altra? è normale voler uscire da un ristorante perché la musica ti sta facendo sbarellare? è normale questo? è normale quello? E quanto odio l’uso di questa parola qui: normale. Forse dovevo sostituirla con “comune”, ma ormai è fatta. Faccio due ricerche, molto superficiali, devo ammettere. Sembrerebbe che il 30% della popolazione mondiale possieda il tratto di PAS (persona altamente sensibile). Sono io? Chissà. Mi importa saperlo? Non lo so, onestamente. Forse sì, forse questa fetta della torta dei miei tempi, quelli presenti, passati, e futuri, è una fetta importante che meriterebbe spazio, un tratto di penna deciso, persino un colore dedicato.
Nella mia breve ricerca mi sono imbattuta in due cose, una ve la metto nella sezione giù, e una qui: ve le lascio per costruire un ponte tra me e voi, tra il mio sentire e il vostro.
Ho trovato questa intervista fatta a Victoria Pedretti (è tutta molto bella) che a un certo punto dice:
I feel a lot. And sometimes it’s horrible, but sometimes it’s awesome. And it feels good when I can accept it.
Sento molto. E a volte è orribile, ma a volte è fantastico. E mi sento bene quando riesco ad accettarlo.
Potrei averlo detto io, mi dico mentre piango - perché la sua voce mi muove cose dentro al petto - e perché so cosa significa, sentire “troppo” e voler sentire meno. Ma sto meglio quando riesco ad accettarlo, e forse starò meglio quando finalmente abbraccerò anche questa parte di me, rendendola visibile, una fetta importante nei miei grafici a torta.
Il punto più alto del mio cielo. Il mio sentire.
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho scoperto Zaho de Sagazan, una cantante francese che ha da poco fatto una collaborazione con Tom Odell (che amo, e lo sapete già se mi conoscete un po’). La canzone si chiama Old Friend, ma io vi lascio soprattutto questo video qui in cui Tom e Zaho si incontrano per la prima volta: lei parla di come sente tutto nella vita, in modo penetrante e a tratti doloroso. E di come la musica l’aiuti a fare spazio, a creare ordine, a respirare quando sente di annegare. “Quand la solitude vient me rendre visite / J'ai pris l'habitude alors, alors de l'inviter / Il vient chanter pour moi / Me fait pleurer parfois / Souvent même si je n'étais pas là pour ça / Il me fait pleurer, ma foi / Si j'y retourne, c'est que j'aime ça1”
Sunshine, Love, Salvation: “It could happen any time, tornado, earthquake, Armageddon. It could happen. Or sunshine, love, salvation. It could, you know. That’s why we wake and look out—no guarantees in this life. But some bonuses, like morning, like right now, like noon, like evening.2”
Vi segnalo questa raccolta di ebook gratis “per diventare liberə”: “Wherever each of us live, work, and are in community: the time is now to build power and fight back, together.3”
Grazie per il vostro affetto, e fate ə monellə! vvb <3
Quando la solitudine viene a trovarmi / Ho preso l'abitudine di invitarla a casa mia / Viene a cantare per me / Mi fa piangere a volte / Spesso anche se non ero lì per questo / Mi fa piangere, la mia fede / Se ci ritorno è perché mi piace.
Potrebbe accadere in qualsiasi momento, tornado, terremoto, Armageddon. Potrebbe accadere. Oppure il sole, l'amore, la salvezza. Potrebbe, insomma. Ecco perché ci svegliamo e guardiamo fuori: non ci sono garanzie in questa vita. Ma alcuni bonus, come la mattina, come adesso, come a mezzogiorno, come alla sera.
Ovunque ognuno di noi viva, lavori e sia in comunità: ora è il momento di costruire il potere e di reagire, insieme.
Conosci Nicoletta Travaini e i suoi libri, a proposito di Persone Altamente Sensibili?
❤️