La persona più monella della mia vita
2019, Porto: di una monelleria grande, e di un'amicizia ancor di più.
Di come ho imparato a fare la monella
Da piccola non ero monella, tutt’altro. Obbedivo alle regole, avevo sempre un po’ di paura a fare le cose (tante cose), non alzavo la voce, non trasgredivo. Sapevo stare al posto mio, insomma. Come scrivevo in questo post su Instagram qualche tempo fa:
La leggenda narra che da piccola io non volessi nemmeno scendere dal marciapiede senza che mia sorella mi tenesse per mano.
Crescendo sono cambiata, non sempre mossa da un desiderio di migliorare, anzi, spesso semplicemente per via di scelte, o eventi fortuiti, o ancora di fortunati incontri. Uno di questi incontri è stato quello con Jonathan Tennant - Jon per le persone amiche - paleontologo, comunicatore scientifico, e attivista per l’open science (una cosa di cui sicuramente scriverò tanto, qui, dentro Fate ə monellə).
È il 2015, sto iniziando a scrivere la tesi di dottorato, il mondo dell’accademia mi sta sempre più stretto, e cerco di capire che fare della mia vita. Un giorno vado a Bruxelles per partecipare a un evento di comunicazione scientifica, e lì incontro Jon. Un paio di birre dopo, e qualche sana lamentela sugli editori accademici, e siamo best friends. Mi accorgo molto presto che Jon è davvero un monello, uno che non le manda a dire, non si nasconde, e che soprattutto non teme di mostrare i propri sentimenti; da lui imparo in fretta l’espressione:
I like to wear my heart on my sleeve.
Tant’è che Jon si era tatuato addosso il simbolo dell’open access (e dell’open anarchy, a detta sua), per ricordarsi ogni giorno che “knowledge has no master”, ovvero che la conoscenza non ha padroni.
Gli anni passano, è il 2019, mi invitano a Porto tenere uno dei due discorsi di apertura dell’Open Science Fair. Lo dico a Jon, gli dico che sto preparando la presentazione, mi dice che me la guarda volentieri in anteprima, ma stavolta aggiunge: "don't forget the Italian fury" (non dimenticare la [tua] furia italiana). Nei nostri brevi ma intensi anni di amicizia, Jon mi dice spesso che c’è della rabbia sopita dentro di me, una specie di voce che fatica a trovare espressione. Non c’è mai rimprovero nelle sue parole, né paternalismo, forse solo il desiderio di vedermi finalmente liberata dalle regole, dai limiti, da quello che è buono e giusto, per osservarmi spiccare il volo, finalmente libera, finalmente me stessa, arrabbiata, e giusta.
Allora decido di fare la monella.
Decido che non voglio più usare le solite parole per parlare delle solite cose. Preparo una presentazione che forse per la prima volta in Europa mette al centro del discorso dell'open science la diversità e l'inclusione; per la prima volta parlo di salute mentale, di fallimento, di prestigio, dell’agenda neo-coloniale che è l’eccellenza nella ricerca. Per la prima volta mi riconosco. Grazie a Jon, alle sue parole, e alla nostra amicizia. Questa monelleria mi permette di fare la presentazione più bella della mia vita, tanto che qualche giorno dopo ricevo quest’email da un professore in Irlanda:
La monelleria di Jon ha ispirato la mia, ne è stata amica fedele e compagna di avventure. Mi ha aiutata a guardare in faccia la paura, la stessa che mi ha tenuta al sicuro per tanti anni, e a spalancare le finestre di casa, per fare entrare un po’ d’aria fresca e ribelle. A Porto non ho di certo cambiato il mondo, ma da lì a poco l’UNESCO ci avrebbe chiesto un contributo per la nuova raccomandazione sull’open science, e finalmente scrivemmo (io, Jon, e molte altre persone) di una nuova produzione del sapere che fosse inclusiva, equa, sostenibile.
E voi? Avete persone monelle del cuore? Una monelleria che custodite con cura? Vi va di raccontarmela?
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho ceduto e ho comprato l’abbonamento a Disney+; ho subito visto Poor Things e mi è piaciuto tantissimo, anche se per me un po’ crudo. Non capisco le critiche che lo descrivono come un film femminista, però; io di femminista ci ho visto poco e niente. Ah, il finale mi ha deluso un po’. Emma Stone però sublime.
Il numero 57 di Ojalá mi ha fatto un po’ male, e mi ha rapita. Dio, come abbiamo bisogno di molti più racconti così, sulla vecchiaia e sull’invecchiamento femminile! Grazie, Alice.
Ho finito di leggere l’ultimo numero di Dàme Magazine, tutto dedicato ai capelli. Mi sono (ovviamente) rivista tantissimo nel primo articolo sulla caduta dei capelli durante la chemioterapia, e il pezzo mi ha fatto capire ancora di più che la cosa più brutta del perdere i capelli è stato ammettere di essere malata: “La decisione di nascondere agli occhi deə sconosciutə la malattia, di non identificarsi in lei, non renderla protagonista.”
Questa newsletter torna giovedì prossimo? Chi può dirlo?! Frattanto, fate ə monellə!