Equazione indeterminata
Di identità, moltiplicazioni, matematica. Lo sapete perché meno per meno fa più?
And now I watch her
Running round in love again
Ci sono stati molti anni, in passato, in cui pensavo che la vita e l’amore stessero accadendo da un’altra parte del mondo, a qualcun altrə, e che non mi avrebbero mai raggiunto. Sono stati anni molto difficili, anni in cui andavo in giro come se stessi portando un segreto molto grande sotto la pelle, un segreto impronunciabile, un segreto che non potevo condividere, di cui nessunə sembrava nemmeno accorgersi. Un segreto che col tempo però ho dimenticato. Ero solo una ragazza, niente più.
Una ragazza in cerca della sua parola.
Poi la vita è arrivata, e con lei la parola, più d’una: in un lento giorno d’agosto di tanti anni fa ho aperto le finestre del mio appartamento, ho lasciato che la nebbia che offuscava la mia mente si sollevasse, scrollandomi finalmente di dosso strati e strati di tristezza, di nostalgia, di ricerche vane e complicate. Ho iniziato (nuovamente) a vivere. Avrei dovuto congelare quel momento lì - penso dopo tutti questi anni. Sarebbe bello poterla congelare - la vita dico - nei suoi attimi a un passo dalla felicità pura, prima che si sporchi, che si riveli imperfetta, finita, limitata. Prima che si riveli una trappola.
Questa settimana ho iniziato la psicoterapia di gruppo, ne accennavo nella scorsa puntata. Non posso scrivere delle cose che ci siamo dette, noi persone del cancro, né di come si è svolta, ma posso provare a raccontarvi di come abbia stretto un paio di viti nella mia gabbia toracica. Ogni sguardo, ogni parola, ogni lacrima, tutto di questi tempi mi sembra destinato alla costruzione di un cuore nuovo, uno la cui mappa mi rimane ancora sconosciuta.
Identità ed equazioni
Mesi fa ho capito che avrei voluto usare il cancro, se possibile, questa cosa così grande e così brutta, come strumento di indagine per capire chi voglio essere, chi voglio diventare. Cosa vuol dire esistere, per me.
Me lo chiedevo nel numero dell’edizione estiva 2023 che ho scritto come ospite della newsletter di
Se la risposta è io, la domanda qual è?
È un pezzo a cui sono molto affezionata, un pezzo in cui provavo a fare un po’ di chiarezza dentro ai miei esercizi di identità, esercizi fatti di addizioni e moltiplicazioni, differenze, intersezioni. Equazioni affollate dove ho sempre provato ad aggiungere anziché sottrarre, racimolando pezzettini qua e là, per completare un puzzle che aveva sì la forma del mio volto, ma che continuava a restituirmi anche qualcos’altro. Forse era già iniziata la costruzione di un cuore nuovo, e io non lo sapevo ancora. Come non sapevo ancora che un paio di mesi dopo avrei dovuto far posto a una cosa nuova, un’altra incognita in quell’equazione così piena.
Il cancro ha reso i miei esercizi di identità ancora più complessi, e a tratti davvero faticosi. È come se ogni punto di arrivo fosse sempre anche un punto di partenza. Come se in certi momenti mi illudessi di far tornare i conti, dentro un’equazione di bella forma e dalla soluzione finita, determinata, per poi accorgermi che invece non è proprio così. Ve la ricordate, la storia delle equazioni, e delle loro soluzioni? Da brava nerd matematica, io sì: se un’equazione si può risolvere e ammette un'unica soluzione, si dice determinata - fine dei giochi. In altre circostanze, di cui però non parlerò qui perché se no mi perdo, un’equazione può non avere soluzione - in questo caso si parla di equazione impossibile - o ancora averne infinite, di soluzioni, diventando invece un’equazione indeterminata.
Negli anni in cui la vita accadeva da un’altra parte, mi sono spesso sentita un’equazione impossibile. Ora mi sento più un’equazione indeterminata.
Ma non sono nemmeno così sicura che c’entri la malattia, in questo. O che sia soltanto a causa della malattia. Appartengo alla generazione che ha visto chiaramente - forse per la prima volta nel corso dell’ultimo secolo - la possibilità di diventare cosa si vuole diventare. La generazione che ha visto tutto allungarsi lentamente - dagli anni di studio, alla ricerca del lavoro, all’aspettativa di vita (a meno che tu non abbia il cancro, lol). Siamo testimoni, noi che navighiamo nei quaranta, del crollo di tanti muri che ci impedivano di diventare quello che volevamo e che invece ci dicevano chiaramente quale posto avremmo dovuto avere nel mondo. Solo che ora, ora che forse possiamo davvero essere noi stessə, qualunque cosa questo significhi, facciamo fatica a divenire. Non lo so, eh, ma ho questo dubbio.
Come dicevo, mi sembra spesso che ogni punto d’arrivo sia anche un punto di partenza, almeno per me. L’elaborazione di un sentimento, di un momento, di un pezzo del cammino, da una fase all’altra in un processo che sembra farsi sempre più lungo, sempre più lento, in cui tutto sembra quasi accadere contemporaneamente. Una storia in cui il passato ci restituisce ancora riflessi di ciò che eravamo ieri, mentre il presente ci spara in avanti come una pallottola a tutta velocità. E il futuro? Il futuro sempre sull’uscio, sempre alle porte, ma non sembra mai davvero iniziare.
Mi pare di abitare un tempo lungo e lento anche dentro la malattia. Anche mentre prendo posto intorno a un tavolo pieno di carte colorate, in un pomeriggio di settembre, circondata da altre persone che il cancro hanno dovuto inserirlo nei loro esercizi di identità, nell’intimo dei propri santuari. Siamo tante equazioni, penso. Io provo a risolvere per x, lei per y, lei ancora per qualche lettera greca che non so pronunciare. O almeno così mi pare. Io sembro annaspare, a tratti; mi muovo al buio, mentre parlo dei miei tempi e del mio io, mi muovo al buio come quando di notte mi alzo per andare in bagno. È casa mia, conosco le porte, gli angoli, i mobili, eppure non riesco, non mi viene bene. Cammino portando il busto in avanti, forse a proteggere piedi e gambe, allungo le braccia per toccare le pareti, per essere sicura che sia ancora tutto lì, prima di voltare l’angolo, arrivare in corridoio, svoltare di nuovo, toccare la porta. Procedo a tentoni, in un’oscurità che conosco, ma che continua a cambiare forma.
È lento anche il tempo della terapia. Cioè, no, non è vero. Si muove in fretta, due ore volano, ma io mi sento dentro una bolla di sapone, o forse dentro una nuvola, è tutto ovattato, noi parliamo a voce bassa, abbiamo timore di fare rumore, di pronunciare parole per le quali non siamo pronte. Ci guardiamo spesso, in cerchio, ognuna intenta a risolvere la propria equazione, le nostre incognite, i nostri silenzi, negli attimi in cui asciughiamo le lacrime, e sembriamo dirci a vicenda che la nostra esistenza è legittima, che quello che proviamo è indiscutibile. Che non siamo sole in questo dolore.
Penso che esiste una distanza tra di noi, donne sconosciute appena incontrate, una distanza che proviamo a colmare mentre ci raccontiamo le nostre verità, le nostre rivelazioni, le cose che abbiamo perso e quelle che abbiamo trovato. È un piccolo viaggio dentro santuari inaccessibili e io mi chiedo se riusciremo a rimanere vicine, quando il volume si alzerà e la porta si aprirà. Vorrei portarmi dietro questa nuvola, questa vicinanza, questo volume basso con cui ci diciamo le cose.
Penso anche a quell’altra storia matematica, quella del “meno per meno fa più”. Mi sposto sull’asse dei numeri, il primo meno mi dice che devo guardare verso sinistra, verso i numeri negativi, ma il secondo mi ricorda che devo camminare come un gambero, all’indietro, nella direzione opposta, verso quelli positivi. Meno per meno fa più. Se moltiplico due cose negative ne viene fuori una positiva. Che magia è mai questa?
Me lo chiedo mentre disegno la mappa di questo cuore nuovo, mentre provo a capire chi voglio essere, cosa voglio diventare, cosa significa per me esistere.
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho visto la seconda stagione di Prisma, finalmente! Che dire, bellissima. Un peccato non ci sarà la terza stagione, davvero: c’è un sacco bisogno di serie televisive così. Oh, Mattia Carrano attore incredibile!
Sto leggendo (quasi finito) “Sad girl - la ragazza come teoria” di Serena Marzullo - grazie a Eleonora per avermelo regalato. Ci ho trovato dentro tanta roba di me, veramente tanta. Ne parlerò.
L’ultimo numero di
: “And would I like a miracle cure? Sure. But I can’t anchor my sense of well-being in some future unknown, be it a miracle or something else. It doesn’t bring me comfort to hope for something that’s so far out of my control. I need to stay within what I can control, and what’s in my control is how I feel right now, how I live my life right now. And my life right now is good. It’s good despite illness. It’s maybe even good because of it—because of how it has clarified what I value and rerouted my priorities.”1
A presto, e fate ə monellə!
E vorrei una cura miracolosa? Certo, ma non posso ancorare il mio senso di benessere a un futuro sconosciuto, che sia un miracolo o qualcos'altro. Non mi dà conforto sperare in qualcosa che è così lontano dal mio controllo. Ho bisogno di rimanere all'interno di ciò che posso controllare, e ciò che è sotto il mio controllo è come mi sento in questo momento, come vivo la mia vita in questo momento. E la mia vita in questo momento è bella. È bella nonostante la malattia. Forse è bella anche grazie a essa, per il modo in cui ha reso chiari i miei valori e ha riorientato le mie priorità.
Ogni volta riesci a trovare chiavi di lettura e figure bellissime per leggersi. Grazie Paola.
una delle nl più belle che abbia mai letto. Anche noi stiamo facendo i conti con nuove anatomie da disegnare e con l'imparare a stare con quello che ci capita (l'ultima Terracielo è esattamente su questo). E che il cuore sia tuo o di una persona che ami, poco importa.
Abbraccio il tuo cor-aggioso cuore, Paola.