Tu non puoi capire
Un muro che si alza, una porta che si chiude, un ponte che crolla. Una frase che non sopporto e che non voglio sentire mai più.
Quanti sentieri, e a che passo differente risaliamo, in quello che sembra un unico viaggio.
Sei mesi di newsletter
Non ci credo: Fate ə monellə esiste già da sei mesi; mi sembra incredibile, e allo stesso tempo la cosa più naturale del mondo. Nel numero zero scrivevo:
Insomma, un po’ alla maniera di Dahl, mi piacerebbe che questo spazio fosse un posto per raccontare storie dentro le storie, per cercare qualche risposta assieme, ma, soprattutto, come dice il titolo a inizio pagina, che fosse un invito alle monellerie. Un invito a colorare fuori dai bordi, a fare domande scomode, a mettere in discussione quello che sappiamo.
Volevo parlare di tantissime cose, dentro questo contenitore. Costruire storie dentro le storie dentro le storie. Forse un po’ ci sono riuscita, forse ci sto riuscendo, forse no.
Quando ho saputo di avere il cancro mi sono detta (e ho detto a tante persone intorno a me): non permetterò che si prenda tutto quanto, ho ancora una vita, la mia vita, la voglio vivere e riempire di cose. Di queste cose, poi, scriverò. Avevo decisamente sottovaluto la portata di quello che mi si chiedeva. Non riuscivo a metterlo a fuoco, prima, ma ora lo vedo con estrema chiarezza: il mio unico scopo per tanti mesi è stato quello di sopravvivere. E sopravvivere ha significato vivere di meno. Dentro questo contenitore c’era spazio per storie che sanno di ribellione e crescita, per storie di condivisione, di ascolto, storie di ricerca e scienza, storie di dati, di come ho lasciato l’università, del mio lavoro, di quello che si vede e di quello che non si vede. Ora guardo agli ultimi sei mesi, sei mesi di scrittura e di dialogo con voi che mi fate questo grande dono di stare all’ascolto, e mi rendo conto che il resto - la vita - se ne sta in silenzio. Un silenzio assordante.
Io le vedo, vedo tutte le cose che avevo, e che non so in che forma torneranno, quando torneranno, le vedo tutte, e vorrei prenderle una a una, parlarne, scriverne, disegnarne. Vorrei poter godere della ricchezza di quello che ero, di quello che sono. Poi pero c’è lui, il cancro; sulla mia scrivania disordinata, fatta di cose che mi attraversano il cuore e la mente, quelle per cui cerco le parole e provo a scrivere storie, lui è sempre in cima alla lista dei miei appunti. Io ogni tanto glielo dico - oh, hai rotto le scatole, fammi respirare, spostati un po’. Prendo i biglietti che portano il suo nome e li metto più in giù, sopra ci addosso libri pesanti e voluminosi, lascio spazio ad altro, ad altre cose. Riordino la lista dei pensieri e, se possibile, anche quella dei sentimenti. Gioisco della mia famiglia, delle candeline sulla mia torta di compleanno fatta col latte vegetale, dei regalini, dell’amore.
Ma mi sembra che sia tutto macchiato. Anche quando lui se ne va un po’ più indietro, lasciando spazio alla vita, e non più alla sopravvivenza, mi pare che tutto porti un po’ il suo nome.
non permetterò che si prenda tutto quanto
Ci avevo creduto tantissimo, io. Lo psiconcologo che mi segue in ospedale, beh lui un po’ meno. Non avevo capito niente, mi sa.
Sei mesi di newsletter dentro undici mesi di cancro. Ci sono giorni, adesso, in cui lo prenderei a cazzotti, mossa da una rabbia che non avrei mai pensato di possedere; altri in cui invece riesce a muovermi dentro una tenerezza dolcissima e senza difese, e finisco per dirgli: accomodati, fai tu. Riordino tutto, e gli lascio lo spazio che gli serve.
Lo spazio che gli serve
Prima dell’estate ho iniziato la preparazione per un percorso psicoterapeutico di gruppo. Inizierò la prossima settimana. Ho un po’ di paura. Sento di avere un gran bisogno di uscire da me stessa e accogliere l’altrə, l’altrə malatə, sofferente, con emozioni difficili da gestire, con ansie, preoccupazioni. Con tutte le cose che ho sperimentato, che sperimento, e quelle che nemmeno so esistere. Non so come lo farò, immagino che lo scoprirò a poco a poco. So che nessun’altra persona potrà comunque “capire” come sto, come mi sento. La psiconcologa che mi ha preparata a questo tipo di supporto me lo ha ribadito - solo tu, sai; solo tu, puoi capire. Lo scopo del gruppo è quello di sentirsi meno solə, vistə, riconosciutə. Ma solo tu, puoi capire.
Ho riflettuto molto su questa cosa, ultimamente. Alcune delle persone che ho perso a causa della malattia mi hanno spesso detto - soprattutto all’inizio, nelle prime settimane dopo la diagnosi - io non posso capire.
Mi sono sentita spesso dire nella mia vita e in circostanze diverse - tu non puoi capire. È una frase che non sopporto. Una frase che io non ho mai pronunciato, e che vorrei non sentirmi dire mai più.
Non posso capire che cosa significa crescere unə figliə, perché non ne ho.
Non posso capire che cosa vuol dire essere ADHD1, perché sono neurotipica. Non posso capire che cosa significa essere disabile, o avere una disabilità, perché non ne ho. Non posso capire le difficoltà che arrivano con l’essere queer, perché non lo sono. Non posso capire cosa significa essere vedovə a quarant’anni, crescere i tuoi bambinə senza la madre, subire un abuso, sentirsi rifiutatə, lottare per la vita.
Non posso capire.
È una cosa che odio profondamente. Non la voglio sentire mai più.
Io non voglio capire. Che poi non so nemmeno che cosa significhi capire, in tutta onestà. Tu non puoi capire è solo un modo per ricordarci che siamo inadeguatə, dinanzi alla vita, proprio2. Ma non è dell’inadeguatezza, che mi importa. E non è nemmeno il sapere le cose, riuscire a metterle in ordine, spiegarle, smussandone gli angoli. Non me ne frega un tubo. Non me ne è mai importato niente. Io mi sforzo, di capire. E quando non capisco, va bene uguale.
Non ho mai preteso che nessuno nella mia vita capisse che cosa significa avere il cancro, o aver paura di morire. Non ho mai chiesto a nessuno di capire che cosa vuol dire lasciare che il tuo corpo accetti tutto, senza opporre resistenza; le cicatrici che si vedono e quelle che non lasciano traccia. Non ho mai chiesto la comprensione razionale e precisa dei miei momenti no, di quelli in cui piangevo come se fossero le ultime lacrime della mia vita, o di quando dovevo abbandonare ogni briciolo di indipendenza, di dignità, quasi3, lasciando che mio marito restasse con me mentre facevo la pipì, seduta sul gabinetto, con lui che mi sorreggeva la testa.
Non volevo comprensione allora, non ne voglio adesso.
Tu non puoi capire - un muro che si alza, una porta che si chiude, un ponte che crolla.
Quando lei mi dice che è complicato, afferrare le cose del mondo, e allo stesso tempo essere una buona mamma4, io le credo. Le ricordo che è bella, brava, coraggiosa. Le basta. Ci basta.
Quando lui mi dice che in certe giornate odia il suo cervello, e che vorrebbe farlo funzionare diversamente, io non lo capisco. Ma come potrei? Però ce la metto tutta. Gli ricordo che è prezioso, quel cervello lì. Gli basta. Ci basta.
Quando lei mi racconta che l’anniversario di matrimonio è sempre un colpo al cuore, quando lui parla della bimba più piccola, la preferita, quella che ha passato meno tempo con la mamma, io cos’è, esattamente, che dovrei capire? Ascolto, accolgo.
Le basta. Gli basta. Ci basta.
Non devo capire. La mia inadeguatezza è lampante. Mi arrendo, davvero.
Non devo capire. Parlo a voce bassa, finché mi è possibile, e poi me ne sto in silenzio, ad ascoltare le loro voci, i loro pensieri. Mi ricordo che abbiamo bisogno delle nostre storie, per salvarci a vicenda.
Riordino la lista dei pensieri e, se possibile, anche quella dei sentimenti. Soffio su una quantità vergognosa di candeline, esprimendo sempre lo stesso desiderio (o no?), scattiamo un sacco di foto, poi mi volto, piango, nascondo il viso, penso che è stato un anno di merda. Ve lo dico, pure. Non capite. Ma non serve, davvero, non serve.
Cose che ho letto, visto, sentito
- che parla delle parole per parlare di amore ❣︎
Questa live su YouTube di Ben Howard che canta End of the Affair. Ha 16 milioni di visualizzazioni, e 6 milioni sono mie (scherzo) (o no?). Viene a suonare a Bruxelles a novembre, chi vuole andare con me?
Sibilla #10 di
- TW: stupro. Grazie a Gaia che mi ha regalato l’abbonamento per un mese <3
Fate ə monellə, vvb :)
Uso un linguaggio “identity first” perché è quello che preferiscono le persone neurodivergenti della mia vita.
Ma che sorpresa!
Con la malattia ho imparato tanto sul falso mito della dignità, un giorno ne scriverò.
Qualunque cosa significhi, eh.
Tu non puoi capire che sei andata molto oltre i propositi di quando hai aperto questa newsletter. Mi basta? No, vorrei che questa progressione continuasse a tempo indeterminato. Ti basta? Non credo, ma non rispondo per altri. Ecco un modo carino per far funzionare anche un “tu non puoi capire”. Abbraccio.