Tre parole - II
Torna la rubrica delle tre parole. Tanto blu, mestruazioni, dizionario delle pene, e paracaduti. Che minestrone.
È il blu più profondo, che parla, che parla, che parla sempre a te.
Ho finito di leggere Bluets, una raccolta di frammenti, proposizioni, pennellate – davvero non so come parlare di questo libro - di Maggie Nelson.
“Perché tu sei dentro questo libro”, mi hanno detto quando me lo hanno regalato. E pensavo fosse una cosa che si dice, ti piacerà, lo apprezzerai, ti farà provare cose. No, avevano proprio ragione, io sono dentro questo libro. Ho finito di leggerlo e non sono riuscita a staccarmene. L’ho portato in giro con me, al supermercato, al panificio, in ospedale. Sul tram e sull’autobus, dentro lo zaino, dentro la borsa. L’ho aperto, guardato senza leggerlo, accarezzato. L’ho girato come si gira una tasca vuota, rivoltato come si rivolta un calzino. Mi sono fatta posto tra una proposizione e l’altra, e sono duecentoquaranta, e duecentoquaranta non sono poche. Non mi è costato nessuno sforzo, io discepola del blu, del desiderio, delle tenebre. Discepola della luce, anche se questo lo so dire di meno. Questo libro mi ha calmata, accudita, fatta piangere. È stato specchio e ombra, relaziona intima e sensuale.
Voglio dire: ho provato ad abbandonarmi a peso morto al mio crepacuore, come un amico mi ha confessato di fare con la mia ansia. Consideralo un atto di disobbedienza civile, dice. Lascia che sia la polizia a rimuoverti a forza.
Così tanta sofferenza inutile, così tanta sofferenza necessaria. La disperazione, la speranza, la malattia, la perdita. La solitudine. Così tanto blu.
Poi mi sono arrabbiata tantissimo. Ho pensato che non è giusto, che non è giusto sentirsi viste così, non è giusto che tutto il dolore si assomigli, non è giusto che Maggie Nelson dall’altra parte del mondo, dalla sua isola di malattia, di disperazione, di sofferenza, abbia catalogato il blu, il mio blu, per usare le parole, le mie parole, per dire le cose, le mie cose. Non è giusto.
È la disfunzionalità che parla. È la malattia che parla. È quanto mi manchi che parla. È il blu più profondo, che parla, che parla, che parla sempre a te.
Quanto è assurda questa cosa qua. Che tutto il dolore, alla fine, si somiglia. Che le parole, alla fine, si esauriscono. Mi hanno detto che le parole però sono solo il mezzo. E che io sono l’inizio. Che io sono la fine.

Questa settimana vorrei parlare solo di Bluets, ma non sono sicura di saperlo fare. Non sono sicura di saperlo fare senza tradire il mio cuore, per essere precisa. O senza tradire questa storia d’amore che è cominciata senza che nessuno me ne desse il permesso. Devo andar via da una festa alla quale nessuno mi ha invitata. Allora ho deciso di parlare di parole, scrivendo la seconda puntata della mia rubrica “Tre parole” (è davvero facile fare finta di sapere che cosa sto combinando con questa newsletter). “Tre parole” è nata lo scorso febbraio, in preda alla disperazione e all’angoscia per lo stato generale del mondo e dell’universo.
Mi piacerebbe poter dire che adesso le cose vanno meglio, ma chi sono io per raccontarvi frottole? Ipernormalizzazione è la parola dell’anno, e se non sapete di cosa parlo leggete l’ultima puntata di Ojalá: è tutto spiegato lì, non ho altro da aggiungere, ahimè.
Partiamo. Le tre parole di oggi sono:
una parola nuova e necessaria in inglese: MANstruation
una parola da un dizionario speciale: alazia
un’altra parola in inglese, che però speriamo di cancellare: parachute science
Iniziamo dalla prima: manstruation / MANstruation. Il termine inglese menstruation (notare la differenza nella seconda lettera: E oppure A) significa in italiano mestruazione o mestruazioni. Sappiamo che le mestruazioni sono un fenomeno fisiologico che avviene in una certa parte della vita, quella potenzialmente fertile, nelle persone di sesso femminile. Persone trans e persone non binarie (che non si riconoscono cioè né nel genere femminile né in quello maschile e che in genere non sentono proprio il binarismo di genere) che mestruano sono spesso soggette a narrazioni costruite con un linguaggio fortemente genderizzato. Espressioni come “salute femminile” e “igiene femminile” escludono le persone che non sono donne, riducono l’esperienza del ciclo mestruale a quella (soltanto!) delle donne cisgender, e contribuiscono a sentimenti di disforia di genere.
non tutte le donne hanno le mestruazioni, e non tutte le persone che hanno le mestruazioni sono donne
Le parole sono importanti (e non solo perché lo diceva Nanni Moretti già nel 1989). Le parole sono importanti perché plasmano la realtà in cui viviamo e veicolano messaggi e intenzioni ben precisi. Uno studio interessantissimo qualche anno fa ha usato i dati di una serie di transvlog1 su YouTube per scoprire quali strategie linguistiche si possono usare per parlare di mestruazioni in modo più inclusivo e giusto. Uno degli approcci evidenziati è quello di riformulare l’esperienza delle mestruazioni come mascolinizzante: da qui, in inglese, il gioco di parole menstruation / MANstruation (man significa uomo).
Funziona in italiano questa cosa? No. È una buona scusa per non prestare attenzione a quello che diciamo? Assolutamente no. A volte basta dire “persone con le mestruazioni” senza assumere la loro identità di genere. Proviamoci.

(Mi è anche venuto in mente che vorrei parlarvi di cancro al seno e disforia di genere, ricordatemelo voi eheh).
Passiamo alla seconda parola o qua facciamo notte: alazia. Alazia è una parola che ho imparato un giorno di tanti mesi fa, non mi ricordo più nemmeno quando o come. L’ho scoperta scoprendo “The Dictionary of Obscure Sorrows” ovvero il dizionario delle pene oscure (I know, I know…). Qualche anno fa una persona si è svegliata e si è detta – ho bisogno di parole nuove per dire tutte le cose che non so dire, per parlare di dolori, pene, sentimenti, soprattutto quando so che esistono parole in lingue che però io non so parlare. I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo. Nel mio mondo ogni emozione ha il diritto di esistere, e allora nessuna emozione è intraducibile e nessun dolore troppo grande per essere espresso, dipinto, osannato.
Mannaggia al mio cuore tutto mi riporta a Bluets.
I latini le chiamavano le lacrime delle cose, le lacrime del mondo - sunt lacrimae rerum. Potete guardare tutte le lacrime qui, ma io tempo fa ne ho scelta una, una di nome alazia. Alazia significa “la paura di non essere più in grado di cambiare”. La parola è stata generata dal greco allázo, cambiare + displasia, sviluppo anomalo di un tessuto. Alazia. Mi sa che ci pensai tantissimo dentro al vortice della malattia, nei mesi in cui avevo paura che mi avrebbe definita per sempre, che mi avrebbe congelata in uno stato di paura e perdita dal quale non sarei mai più venuta fuori. Uno stato di grazia, direbbe qualcuno. Io non l’avevo ancora capito. Il cambiamento a cui andavo incontro era così grande che persino la comprensione del cambiamento era diventata per me irriconoscibile, impossibile, troppo lontana da raggiungere. Mi stavo spogliando di sfarzi e ornamenti, affinando me stessa fino all’essenza di quello che sono oggi. Avevo una paura fottuta di non essere più in grado di cambiare, perché non avevo ancora capito che stavo diventando chi davvero voglio essere.
Alazia. Ce l’avete? Sarebbe bello collezionare parole come si collezionano figurine.
La terza e ultima parola per oggi è parachute science, che sì ok in realtà sono due parole. Questo è un concetto un po’ complesso che sicuramente merita dello spazio e delle attenzioni al di fuori di questa piccola rubrica, ma io ci provo lo stesso perché mi pare davvero essenziale. Parachute science è un termine inglese che in italiano si traduce letteralmente in “scienza paracadute”. Il termine è stato coniato per indicare una modalità di ricerca in cui ricercatori e ricercatrici di paesi ricchi (soprattutto in occidente) si recano in paesi a basso reddito e con meno risorse, raccolgono dati e informazioni, tornano nel loro paese, analizzano i dati e i campioni raccolti, e alla fine pubblicano i risultati senza o con pochissimo coinvolgimento delle comunità locali. Il meccanismo – sigh – non è nuovo, ed è anche noto con il termine di scienza coloniale o neocoloniale. Io sono particolarmente legata al termine scienza paracadute, però, perché credo che si possa benissimo estendere a tutti quegli approcci in cui per rispondere a una domanda di ricerca – magari legittima, necessaria, proprio valida – ci si fa spazio con violenza e poca grazia dentro una comunità, proprio mollandosi col paracadute, senza domandarsi se le priorità di quella comunità sono state comprese, e soprattutto se è un bene per quelle persone che le risposte vadano ricercate con certe modalità. Mi ci ha fatto pensare nuovamente l’ultimo numero di Scienziolitica, di cui riporto un pezzettino soltanto:
Naturalmente, per fare tutto ciò in maniera etica occorrerebbe coinvolgere le comunità interessate dalla raccolta di questi dati, idealmente in più fasi, ma almeno prima di usarli.
Vi invito a leggere tutto il resto, perché è un esempio lampante di come “avere i dati non è sempre un bene” e di come catapultarsi con un paracadute in una comunità è violento, irrispettoso, e manca di etica. Un altro modo di fare ricerca è possibile, ma quella è una parola nuova e sarà dentro una nuova puntata di questa rubrica tutta stramba.
Se la rubrica vi piace, fatemelo sapere. Se no, va bene uguale.
Ora torno al mio blu. VVB.
Cose che ho letto, visto, sentito
Lo stato di grazia di cui parlo su. Lei lo dice bene.
Sto rivedendo Unbreakable Kimmy Schmidt perché per me è un capolavoro e mi serve ridere un po’. Agevolo clip.
Antonella Lattanzi ha scritto per Lucy un pezzo dal titolo “Come far ricomparire le persone”. Bellissimo.
Fate ǝ monellǝ <3
Transvlog sono dei vlog su YouTube in cui persone trans narrano del proprio percorso di transizione di genere.
È una rubrica stupenda, grazie per avere illuminato queste tre parole.