Tre parole - I
E no, non sono sole cuore e amore. Aggiungiamo parole alla faccia di chi le vuole cancellare, assieme a identità e comunità intere. Iniziamo a costruire un vocabolario che sa di resistenza.
This is the time to recognize that the very existence of our massive knowledge commons is an act of collective civil disobedience.
Qualche ora fa ho chiuso la chiamata settimanale con la mia psicoterapeuta. Abbiamo parlato di morte, malattia, elaborazione post traumatica, tutta roba leggera insomma. Sono finita a raccontarle di quella volta in cui di notte sono stata malissimo e ho chiesto a mia madre di chiamare papà perché forse pensavo stessi per morire. Il giorno dopo ho dovuto saltare la chemioterapia, ho iniziato una trasfusione di sangue che non sono riuscita a finire, è esplosa la febbre, alla fine mi hanno ricoverata. Lo racconto alla dottoressa per filo e per segno, le racconto di me che mi sento corpo bucato, sacco vuoto, di me che piango silenziosamente tra le lenzuola in reparto, quando l’orario delle visite finisce. Poi le dico ma che importa, è passato, che te ne frega a te, che ce ne frega. Chiudiamo il cassetto a chiave, facciamo finta di niente - questo in verità vorrei dirle. È lei a ricordarmi che ce ne importa eccome, ci importano soprattutto le parole che scegliamo per parlarne, sono importanti, le parole, mi dice. Le parole fanno spazio e costruiscono. Ci salvano. Tutto salva, mi ricorda la dottoressa.
Tutto chiede salvezza, e tutto salva.
Io allora continuo a raccontare. E potrei raccontare anche a voi che leggete questa newsletter qui, come ho fatto decine di volte e come molto probabilmente farò ancora. Oggi però sento troppo dolore, ho il fiato corto e la testa mi esplode. Non ho più voglia di ricordare e voglio lasciare l’elaborazione post traumatica al mio tempo con la psicoterapia. Qua oggi proviamo a parlare di altro. Ma di cosa?
Vorrei con tutto il cuore selezionare solo cose belle e luminose, scegliere con cura parole che raccontino storie di compassione e di gioia, di lieti fini, di caramelle e giochi, di bambini, di bambine, storie di libertà, di democrazia, di giustizia. Di autodeterminazione di persone, comunità intere. Che belle parole.
Ieri
ha pubblicato una newsletter che di parole parla, per l’appunto, e in particolare di quelle che sono state utilizzate in USA per rimuovere dati dal sito data.gov e delle pagine federali di salute pubblica. Le stesse parole che ora ricercatori e ricercatrici tengono d’occhio per vedere se devono effettuare modifiche al loro materiale di ricerca. Questa è censura. E quello che sta succedendo è grave, gravissimo. Io vi invito a leggere il pezzo di Columbro (e a seguire il suo lavoro in generale) per capirne di più. Qui mi limito a dare eco alla voce di Zack Labe, un ricercatore che da anni si occupa di studiare fenomeni di cambiamento climatico e che ora sente di stare rischiando il proprio lavoro, la propria carriera, tutto il sogno di una vita:
Queste notizie sono deprimenti, lo so. Allora piangiamo un po’ (io non posso davvero farne a meno), ma poi pensiamo anche a come fare resistenza, a come creare alleanze, a come difenderci, insomma. Perché sembra che la cosa sia lontana, che non ci riguardi, ma ci riguarda eccome, ci tocca eccome, è roba anche nostra e ce ne dobbiamo occupare. Per usare le parole di
in questo numero qui:[…] perché i totalitarismi hanno fame di tributi di sangue. Una volta che gli hai dato le persone trans reclameranno altre categorie da trasformare in capri espiatori, e prima o poi verranno a prendere anche te.
Allora oggi scelgo un piccolo atto di ribellione, uno che metto nero su bianco in questa puntata e che offro a voi tuttə (fatene quello che vi pare): oggi aggiungo parole lì dove qualcuno invece vuole cancellarle. Costruiamo a poco a poco un piccolo vocabolario, imparando a pronunciare parole (alcune nuove magari e alcune no), e quindi ad affermare con loro la validità e il diritto di tutto quello che rappresentano. Oggi iniziamo con queste tre parole:
una parola in inglese: rematriation
un acronimo: LGBTQ2S+
una parola in italiano: custode
(sono sicura l’ultima non sia nuova, ma proveremo a declinarla in un modo nuovo).
Iniziamo dalla prima: rematriation. Sappiamo tuttə cosa significa repatriation, in italiano rimpatrio: il ritorno in patria o in generale la restituzione di beni a un paese d'origine, a una nazione. La radice latina di questa parola è patr-, e si riferisce a un sistema governativo e sociale progettato intorno a una linea di discendenza patrilineare (dove contano soprattutto gli uomini, per farla breve). Il processo di rematriation - un concetto introdotto per la prima volta nel 1988 dall’autrice femminista indigena Lee Maracle nel suo libro “I am woman” - pone piuttosto l'accento su un ritorno alla Madre Terra (non necessariamente a un paese, un luogo) riconoscendo il legame sacro tra le comunità indigene e i territori da cui sono state storicamente espropriate a causa della colonizzazione e delle politiche oppressive. La rematriation è un vero e proprio atto di resistenza, riconciliazione e rigenerazione culturale, e pone grande attenzione sul ruolo centrale delle donne nelle culture indigene.
Questa parola descrive (e io credo che lo faccia molto bene) un paradigma di studio e di lotta femminista che vuole:
riconquistare la sovranità e l’autodeterminazione indigena
innescare processi di restituzione e guarigione
promuovere la giustizia climatica (nonostante rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale e occupino il 22% della superficie terrestre, le comunità indigene proteggono l'80% della biodiversità globale e sono quelle più impattate dalla crisi climatica1)
costruire un modello sociopolitico che urla rinascita, risorgimento, e allo stesso tempo rifiuto.
Uso le parole di Robin R. R. Gray, professoressa e ricercatrice alla University of Toronto (nonché nipote di Maracle), per esplicitare questo rifiuto2:
with rematriation we do not orient or anchor ourselves to white supremacy, heteronormativity, heteropatriarchy, or anthropocentrism
con la rematriation non ci orientiamo né ci ancoriamo alla supremazia bianca, all'eteronormatività, all'eteropatriarcato o all'antropocentrismo3
Mi sono messa a studiare un po’ di storie di rematriation, alcune sono proprio bellissime e mi confermano una cosa che ho capito anni fa oramai: la ricerca scientifica che usa questo paradigma è lontana anni luce dal modo tutto occidentale e opprimente di fare ricerca al quale io in primo luogo sono abituata4.
Vi racconterò queste storie in futuro, promesso, ma è ora di passare alla seconda parola, che, come vi accennavo, in verità è un acronimo: LGBTQ2S+, che sta per:
Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer, Two-spirit
Two-spirit è la parte nuova, per me (e molto probabilmente per moltə di voi), quella che non avevo idea di cosa significasse: un termine contemporaneo usato da persone indigene nordamericane per descrivere il fatto che svolgono un ruolo sociale tradizionale di terzo genere (o altre varianti di genere) nelle loro comunità (in italiano potremmo dire “due spiriti”, volendo).

Ci tengo a sottolineare che né il termine né il concetto di two-spirit sono accettati in tutte le culture indigene, anche perché quelle che hanno ruoli tradizionali per le persone non conformi al genere hanno nomi nelle loro lingue indigene per queste persone e per i ruoli che ricoprono nelle loro comunità (che mi pare proprio ovvio).
Insomma, scrivendo questa newsletter ho imparato una cosa nuova, e imparando mi sono fermata a riflettere sulla diversità e la ricchezza di questo mondo, sulle possibilità di una vita piena e autodeterminata. Penso a quanto preziose sono le nostre identità, a quanto amore e a quanta cura si celano dietro le parole che scegliamo per parlare di noi. Guardo i riferimenti bibliografici della pagina Wikipedia dove ho imparato che cosa significa Two-spirit, e non posso fare a meno di chiedermi quanto resisteranno queste riviste, questi articoli, questi lavori, queste ricerche. Allora arrivo all’ultima parola di oggi, quella che conosciamo tuttə: custode. Ci arrivo ripescando dalla memoria il primo grande caso giuridico Elsevier contro Sci-Hub e Library Genesis. Provo a riassumerlo: nel 2015, Elsevier, una delle maggiori case editrici scientifiche del mondo, ha intentato una causa per violazione di copyright contro Sci-Hub e LibGen, due piattaforme che forniscono gratuitamente articoli scientifici e libri accademici, spesso aggirando i paywall delle case editrici. Questo l’esito della causa legale: Elsevier ottenne una sentenza favorevole dalla Corte Distrettuale di New York, Sci-Hub e LibGen furono ordinati a cessare le attività e a pagare 15 milioni di dollari di danni. I domini delle piattaforme vennero sequestrati, ma i siti sono poi rapidamente tornati attivi con nuovi indirizzi.
Di fronte all’esito del tribunale, Alexandra Elbakyan, fondatrice di Sci-Hub dichiarava:
If Elsevier manages to shut down our projects or force them into the darknet, that will demonstrate an important idea: that the public does not have the right to knowledge.
Se Elsevier riuscirà a chiudere i nostri progetti o a oscurarli, questa sarà la dimostrazione di una cosa importante: che il pubblico non ha diritto alla conoscenza.
Io nel 2015 stavo per concludere il mio dottorato di ricerca in un istituto con un botto di soldi e abbonamenti carissimi a tutte le riviste scientifiche possibili e immaginabili. Eppure sentivo forte che questa era un’ingiustizia enorme. Non ero l’unica: nacque prestissimo un movimento, un motto, una promessa, un impegno collettivo, un sito web. Nacque https://custodians.online/, una rete di custodi del sapere che si univano in solidarietà con Library Genesis e Sci-Hub. La lettera di solidarietà scritta dal collettivo e poi diffusa in tantissime rete accademiche online si apriva così:
Nel racconto di Antoine de Saint Exupéry il Piccolo Principe incontra un uomo d’affari che accumula stelle con l’unico scopo di essere in grado di comprare altre stelle. Il Piccolo Principe è perplesso. Possiede solo un fiore, cui dà l’acqua ogni giorno. Tre vulcani, che pulisce ogni settimana. “È utile ai miei vulcani, ed è utile al mio fiore che io li possegga. Ma tu non sei utile alle stelle…”.
Il resto della lettera potete leggerlo qui. Io mi ricordo che la stampai decine e decine di volte, lasciandone copie in mensa universitaria, sotto le riviste nelle sale comuni, la appendevo nei laboratori del mio istituto, la lasciavo cadere con indifferenza dentro le stampanti in segreteria. Ho cambiato il mondo? No. Ho liberato il sapere scientifico? Direi di no. Ho fatto una cosa piccola, piccolissima, ma era la cosa giusta da fare. Sono diventata custode del sapere. Allora oggi più che mai rinnovo questa scelta, rivendico quest’identità. E vi invito a riflettere su cosa potete fare voi, su cosa possiamo fare assieme per opporre resistenza e lottare.
Custodire e proteggere il sapere, leggere, digitalizzare, archiviare, condividere, salvare, condividere di nuovo. E dopo che abbiamo condiviso, condividere ancora, e ancora.
Annaffiare i fiori e pulire i vulcani. Non tutto è perduto.
Cose che ho letto, visto, sentito
- mi è piaciuto tantissimo: non ci appartiene nulla, se non il tempo.
“I Can Predict Your Future” - un altro episodio indispensabile di
se si vuole capire qualcosa di cancro, malattia, morte.Sto leggendo ‘TINA, la rivistina letteraria indipendente fondata da Matteo B. Bianchi. Ma lo sapete sì che amo le riviste? Scrivetemi se mi volete fare un regalo ahahahah :D
Anche oggi era lunghetta, ma ehi, ce l’avete fatta! Grazie, fate ə monellə!
Per approfondire: “Rematriation and climate justice: Intersections of indigenous health and place”
Ho letto un pezzo bellissimo su “Errant Journal”.
Mi verrebbe da urlare a Trump, Musk e compagnia bella: IN YOUR FACE!
“Parachute science” vi dice niente? Arriverà su questi schermi, promesso!