Tienimi le mani
Una puntata dedicata a voi che leggete questa newsletter, accogliendone le parole e i maremoti che si porta dietro, e alle piscine dei vostri sentimenti.
Questa è la prima puntata che mamma legge da un posto più caldo, un posto più a sud. La scrivo provando a respirare tra le onde che mi avete scatenato nel cuore e nella pancia, piccoli maremoti fatti di voi e delle vostre emozioni, delle vostre lacrime, dei vostri messaggi, di tutto quello che avete deciso, generosamente, di condividere con me dopo l’ultima puntata. Che privilegio, sapere che abitiamo assieme questo spazio qui. Parlare di grief non è per niente banale, ma trovo ci sia una certa eleganza, nelle parole che scelgono di accarezzare zone in ombra, dove la luce fatica ad arrivare. La mano ferma, ma che si sforza a ogni riga di essere gentile. La mia scrittura è forse immagine speculare della mia vita, delle giornate che abito in questi tempi incerti: non sono mai riuscita a brillare particolarmente di notte, al buio, quando il mondo dorme, trovandomi molto più a mio agio invece nelle ore luminose del giorno, al mattino presto, aprendo un libro a letto per poi trascinarmi in cucina a preparare il caffellatte. Invece la mia scrittura sembra essersi dedicata a esplorare angoli remoti fatti di roba difficile da digerire, inventando linguaggi e vocabolari nuovi. Forse semplicemente rispolverandone di vecchi; un registro che conoscevo, da ragazzina, a cui ho faticato a dar voce per tanto tempo.
Torniamo a voi, però - perché oggi è di voi che voglio parlare. Se è eleganza che immagino, tra le parole di questa scrittura, allora ne scorgo ancora di più nella lettura che le accoglie, nonostante il dolore e la fatica. Abbracci intenzionali, dove niente è lasciato al caso; per questo ve ne sono particolarmente grata. Siamo tantə, siamo diversə, ma la scrittura forse ci ricorda che tocchiamo tuttə le stesse cose, che attingiamo tuttə dalla stessa fonte, la stessa sorgente d’acqua.
Il fondo della piscina
Qualche tempo fa ho letto questa cosa qui, sul grief, e non mi ricordo nemmeno dove a dire il vero, e non so nemmeno se era proprio così o se quella che state per leggere è piuttosto una mia libera interpretazione. Abbiate pazienza, hear me out.
Mi sono fatta una certa idea, in questi mesi di malattia e di cure, un’idea sul dolore umano, e in particolare sul perché certe esperienze di vita facciano molto più male quando si è giovani. Sul perché ad esempio avere il cancro, vivere una malattia, un lutto, subire un abuso, siano ancora più totalizzanti, più insopportabilmente dolorosi (e spero sappiate che per me non è mai una questione di “quale dolore sia più grande, di quale abbia più diritto d’esistere” - è una retorica, questa, che non sopporto).
Nella mia testa, in quello che immagino, siamo natə tuttə con un certo insieme di sentimenti, una bacinella, un secchio, un bacino d’acqua, una piscina, forse. Una piscina fatta di sentimenti. Alcuni più grandi di altri, alcuni più profondi di altri, ma esiste per tuttə, a un certo punto, il fondo: il sentimento più profondo di tutti. La massima profondità che saremo mai in grado di sperimentare, di provare. Niente che vi somigli. Niente che possa lontanamente raggiungere quel livello lì. Solo che poi ti succede una cosa orrenda, forse la peggiore che potesse capitarti - una cosa per cui magari avevi gli incubi da bambinə o forse magari no perché nemmeno pensavi fosse possibile, però a ogni modo se ci pensavi ti dicevi - non fa niente, perché questa cosa non succederà a me e se succederà sarò più grande e allora avrò provato così tanta roba, così tanti sentimenti, che questa qui, questa cosa qui, la peggiore possibile, non sembrerà più così terribile.
Dicevo - un giorno ti succede una cosa orrenda - scopri di avere il cancro, ad esempio - e quello che senti arriva in fondo, spinge giù, fino in fondo alla piscina, squarcia il pavimento e lo scava, scava una voragine, giù, in basso, per fare spazio, per accomodare una cosa così enorme. E sei giovane, e forse non hai nemmeno imparato o sentito tutto quello che c’era da imparare o sentire, ma è una cosa così grande e profonda che non fai che chiederti - anche quando passerà (perché passerà, sì, passerà), se ne andrà mai davvero? O tutte le volte che ti accadrà qualcosa di brutto, di terribile, non si fermerà solo al fondo, ma continuerà a scavare, una voragine dietro l’altra? E cosa accadrà alla mia vita dopo, e cosa accadrà a quella prima? Che ne sarà dei miei ricordi? Temo che aver scavato nel fondo della piscina richiederà al mio cuore di inventare un nuovo sistema per catalogare tutto, per fare ordine nelle cose che sento ogni giorno, mentre la vita va avanti. Un nuovo sistema che preservi i miei ricordi, che lasci intatti i momenti di felicità, quelli di gioia - non so, ad esempio, il giorno del mio matrimonio - senza che le onde causate da quella trivella rovinino tutto.
Ci penso spesso - forse in modo del tutto prematuro - ma ci penso spesso.
Ho iniziato a pensarci mesi fa, a dire il vero: la trivella imperterrita continuava a scavar voragini e intanto io cercavo conforto, una qualche forma di asilo. Lo trovavo nella mia famiglia, quella biologica e quella d’elezione. Lo trovavo nella mia bolla (online) di presenze femministe, una bolla fatta di zucchero filato e unicorni, sì, ma anche e soprattutto di vicinanza e di intenzioni. Di intrecci. Provavo con tutta me stessa ad ancorarmi a qualcosa, a ricordarmi che l’aria che respiravo, anche se sott’acqua, era la stessa di quella che respiravano molte altre persone. Lo dice in modo sublime
in questo episodio della sua newsletter (che trovo di una bellezza sorprendente):“I was tapped into the fact that we are in this life together.” Or, “I was aware that my lifelines are braided with the lifelines of strangers.” Or, “I was tuned into the knowing that the air I breathe out is the air others breathe in.”
“Ho capito che siamo in questa vita insieme”. Oppure: “Ero consapevole che le mie linee di vita sono intrecciate con quelle degli altri”. Oppure: “Ero sintonizzata sulla consapevolezza che l'aria che respiro è l'aria che respirano le altre persone”.
Allora ho creato una lista di nomi nella mia testa, una lista di persone dalla cui presenza riesco a trarre scopo e significato. Una lista che è cambiata nel corso di questi mesi, perché è proprio vero che il dolore ti riorganizza la rubrica telefonica (e non solo quella). Una lista che ripasso ogni giorno, i nomi in sovrimpressione, perle di un rosario che recito con rinnovata devozione.
Ho letto il vostro grief. E allora ho immaginato che forse anche voi avete scavato a fondo, a un certo punto, dentro il vostro bacino d’acqua, per far posto alla paura, al terrore, a cose grandi, più grandi di voi. Ho letto il vostro dolore, per la vita che avete perso. Per quella immaginata che avete dovuto lasciar andar via. Ho letto il vostro desiderio di accogliere la vita che invece è arrivata.
Mi sono ricordata, ancora una volta, che tocchiamo tuttə le stesse cose, che attingiamo tuttə alla stessa sorgente. E ho sperato, fortemente sperato, che anche voi abbiate sentito l’amore e la vicinanza di altri esseri umani, mentre il sentimento più profondo di tutti vi abitava il cuore.
Volevo - no, voglio - dedicarvi un momento per sentirvi amatə e vistə, qui e ora. In questo spazio di parole e di linguaggi. Seguo la scia di Sufjan Stevens e di quello che scrisse sul retro di Michigan, un album che amo tanto; non ho la pretesa di eguagliarlo in prosa, ma ci provo lo stesso.
Forse non ci piace quello che vediamo: i nostri fianchi, i capelli che cambiano, le fossette, le nocche troppo grandi, le creste delle nostre scapole. Forse non ci piace quello che mangiamo, quello che diciamo. Quello che proviamo. Le abbiamo rivelate queste cose, in segreto, le cose che ci appartengono, quelle che ci piacciono, quelle che non ci piacciono. Le abbiamo rivelate dietro le porte chiuse a chiave, nelle nostre stanze solitarie, sulle nostre scrivanie disordinate, nei nostri cuori vuoti, durante le nostre esplosioni di energia, e i nostri momenti di depressione. Non abbiate più paura. Non preoccupatevi. Mettete via gli specchi, le riviste di bellezza, i libri e i fogli pieni di scrittura. C’è un piano d’appoggio, qui, in questo luogo. Mettete via tutto. C'è qualcuno proprio qui che sta facendo spazio sul divano, che vi sta preparando un pasto caldo, che sta mettendo su il vostro disco preferito, che sta per leggervi la vostra poesia preferita, che sta ascoltando con attenzione quello che avete da dire, che è qui con voi, faccia a faccia, occhi negli occhi, bocca a bocca, e le mani intrecciate. Non rimane nessuno spazio libero.
È il vostro posto. Lì che dovete stare.
Potrà capitarti di bere
Ma non annegherai1
Cose che ho letto, visto, sentito
In realtà ho solo letto (sto facendo molta fatica con la TV o altro). In ordine sparso:
L’ultimo libro di Matteo Bussola, La neve in fondo al mare, non l’ho finito ma non manca molto; doloroso e coraggioso.
- , perché apre con una citazione di Jane Austen (che amo e su cui voglio scrivere puntate intere), e perché parla di nostalgia (estiva).
Questo articolo di Veronica Pacini su Goliarda Sapienza, che mi ha fatto venire una grandissima voglia di rileggere L’arte della gioia (l’articolo, e pure Donata) - “E vedo il mio cuore. Occhio e centro, orologio e valvola del mio spazio carnale.”
È arrivato anche agosto - voi continuate a fare ə monellə! vvb <3
Il titolo e le ultime due frasi di questa puntata vengono da questa canzone qui de Lo Stato Sociale (sono una millennial semplice, io).