Perdere (e ritrovare)
Di ricordi, memorie, lingue. Di grief e pene, e perché no, qualche linguaccia.
Ma cosa fare dinanzi a un mai più se non cercare ininterrottamente nelle furtive note?
Quando vado in ospedale passo sempre davanti alle enormi vetrate della mensa per il personale medico. Quando vado a cavallo dell'ora di pranzo, e passo davanti alle finestre, butto sempre uno sguardo dentro, vedo tantə medicə e infermierə. Lə riconosco, alcunə, nella loro pausa pranzo, a scherzare tra di loro, ridere, mangiare.
Cioè lə riconosco proprio, sono loro, le persone che potenzialmente mi hanno salvato la vita, quelle che forse me la salveranno ancora, a me e chissà a quantə altrə, ma mi sembrano altre persone. Altre persone in un'altra dimensione. Una dimensione che è ancora fatta di camici tutti uguali e scarpe scelte con cura, ma comunque un’altra dimensione. Lontana, inaccessibile. La stessa dimensione in cui mi trovo catapultata quando il volto della mia psicologa fa capolino sullo schermo del mio computer, e io mi trattengo (e mi sforzo, molto) dal chiederle come sta, come vanno le sue giornate, che emozioni le stanno attraversando il petto.
Lə vedo dentro la mensa, dietro quelle vetrate grandi e pulite, e vorrei oltrepassare quel confine, quel confine che vedo e non vedo, avere accesso a quella dimensione umana, in cui non sono più una paziente, e mi interesso delle loro vite. E chiedo se oggi lo chef ha preparato le patatine fritte, se la frutta è buona, se ne mangiano abbastanza - servono almeno tre porzioni al giorno, direbbe mia madre. È una dimensione irraggiungibile, che mi lascia immaginare, cucire storie, ricamare trame. Dura un minuto, niente di più. Ma mi basta.
Di cancro, d’amore e di altre sciocchezze
La radioterapia è giunta al termine, l’ultimo grande passo di un processo di cura iniziato a novembre che ha previsto due interventi chirurgici, venti settimane di chemioterapia (diventate poi sostanzialmente sei mesi), un ricovero in oncologia, uno in chirurgia, non so più quante trasfusioni di sangue, e finalmente quindici giorni di radioterapia. Sembrerebbe tanto, sembrerebbe abbastanza, ma non lo è. Il mio tumore (mio perché nato nel mio corpo, mio perché tatuato a fuoco nella mia mente, mio perché impossibile da dare in prestito, lasciando che qualcun altrə se ne curi per me, per un po’) - il mio tumore, dicevo, è un carcinoma mammario triplo negativo, che è un modo un po’ fancy per dire che le sue cellule impazzite non hanno nessuno dei tre bersagli molecolari contro i quali esistono trattamenti mirati. Che significa, in altre parole, che solo la chemioterapia può aiutare a debellarlo. Ne ho fatta tanta, ma non è bastata; le mie cure continueranno per ancora un po’ di mesi, e sicuramente troverò un angolo in questo spazio per parlarne, soprattutto per parlare di cosa questo significhi per il mio cuore (povero cuore).
Quando penso alla fatica degli ultimi mesi (intendo dire che ci penso sforzandomi di razionalizzarla, di darle un senso, di restare ottimista nonostante tutto - che schifo che mi viene, a scrivere così), quando penso alla fatica degli ultimi mesi e provo a tramutarla in parole, penso spesso a una parola in inglese: grief.
Scrivo in italiano perché è la mia prima lingua, ma parlo inglese quotidianamente da troppi anni, e formo pensieri e sogni in inglese da almeno un decennio, ormai (spesso soggiunge l’olandese, ma con contesti del tutto differenti - e ovviamente il siciliano che è la mia seconda lingua, prima ancora dell’inglese).
Ho chiesto a chatGPT come direbbe grief in italiano, e mi ha risposto:
“grief” in italiano si dice “dolore” o “lutto”. “Dolore” si riferisce al sentimento di sofferenza emotiva, mentre “lutto” è più specifico e si riferisce al periodo di lutto o di cordoglio che segue la perdita di una persona cara.
So - perché lo so - che grief in inglese è molto di più di questo; cerco la traduzione online, e metto assieme un po’ di parole da diversi siti, una traduzione/collage:
dolore · lutto · sofferenza · cordoglio · pena · afflizione · tristezza · angoscia · perdita
È una di quelle parole che sento in inglese, che è in grado di parlare alla parte del mio cervello che opera in italiano, e che non so come, senza quasi nessunissimo sforzo, traduce tutto nella lingua del cuore, quella che parla anche la mia pancia (seppur con sintassi leggermente meno raffinate). Quel gruppo consonantico all’inizio, quel suono scivoloso sulla effe, quella coppia timida di vocali, seduta lì in mezzo. Mi sembra una parola perfetta. Una parola di senso compiuto. Grief.
Lo strappo della vita che va avanti, anche se tu resti indietro. I giorni che passano, mentre il club dei desideri naufragati si fa sempre più popolato. Tu che lasci le cose, annulli un sogno, accetti la realtà. Ricordare qualcosa più a lungo di quanto tu l’abbia vissuta. Vivere nel ricordo più a lungo che nella vita. Mettersi il vestito più bello, e sapere, sentire, che stai addobbando una ferita. Riconoscere che non c’è alternativa al futuro. L’amore non detto. L’assenza che prende spazio. Una voce che ripete - continuamente, senza mai stancarsi - non doveva andare così, non è così che doveva andare. E il mondo che ride, tenendo in ostaggio la tua speranza, sussurrando: ma è così, che è.
Provo a mettere a fuoco quand’è che ho vissuto questo sentimento complesso e totalizzante di grief, senza conoscerne la forma, per la prima volta nella mia vita. Non ho molti ricordi di quando ero piccola, purtroppo, ma se lascio che lo sguardo si soffermi per un attimo sul nodo stretto che si forma all’ingresso dello stomaco mentre la lingua si arrotola, quasi inciampando, su questa parola, allora penso di avere otto anni. E col pensiero riesco a tornare all’estate in cui mia mamma è incinta di mia sorella, e manca poco a partorire, e io attendo di conoscerla, impaurita, perché so, lo so, che sto perdendo amore, e sono troppo piccola per sapere, invece, che il cuore è una cosa strana, stranissima, che più cose ci metti dentro e più lui si allarga. Non lo so ancora, e sento di stare perdendo la mamma. E piango, e non lo so dire.
Ho capito la parola grief però, per la prima volta, quando è morta mia nonna. Mia nonna Paola. L’amica più grande della mia infanzia, forse persino della mia adolescenza. Penso spesso ai suoi occhi grandi, ai suoi occhiali ancora più grandi, alle sue ossa fragili. Penso alle cose che si faceva assieme. Io e lei. Conforto per il mio animo inquieto, le sue preghiere. Delizia per il mio palato stanco di scuola, la pasta al rientro. Calura di stufa in cucina, nelle giornate fredde e piovose. Penso a come non riuscivo a staccare i piedi dal suolo, in chiesa, alla sua veglia. Non sapevo dove andare, ogni direzione improvvisamente priva di senso, di ragion d’essere.
E quasi in un assurdo gioco di lingue e ombre, questo grief qui, che sento in inglese dentro al mio cuore, mi porta alla struggente tradizione popolare della mia isola, e al canto siciliano O Nici Nici1:
Dda vuci o dda vuci tinnirisima
dda vuci tinnirissima
chi lu cori mi strappau
Quella voce, quella voce tenerissima
quella voce tenerissima
che mi ha strappato il cuore
C’era una volta
Una vita che non ho vissuto. C’è grief nella vita che avrei voluto dimenticare. Nei miei aborti spontanei. Nelle cose che ho dovuto lasciar andare. C’è grief nei miei lutti, nella perdita di Jon, che è morto troppo presto (troppo presto, per me).
E poi c’è la diagnosi di cancro, costellata di grief.
C’è il cordoglio per un corpo che cambia, e che non ce la fa. L’afflizione per il tempo in cui non potevi fare altro che respirare, e provare a non annegare. La perdita dei peli, la perdita delle mestruazioni. La pena del non sapere, mai, cosa tornerà e cosa invece non ci sarà mai più.
Tutto in trasformazione, tutto fedele, eppure tutto diverso.
Vorrei tornare bambina. Lo so, che lo dico spesso. Fare una magia. Trovare un momento, in questo fiume di perdita e di angoscia, per una linguaccia fatta con gusto.
Il mondo che ride, in ostaggio la mia speranza, a ricordarmi: ma è così, che stanno le cose.
E io che rispondo, indispettita e furbetta: e a me, che me ne importa?
Cose che ho letto, visto, sentito
- - The love I know: “I cannot fit the totality of my love for you in this world, and so I make the world larger. I am always chasing the tail-end of limits I imagine for my existence, confounding myself with the endless expansion.2”
Cosa posso fare per Gaza? Un post su IG di
che riassume i modi in cui possiamo aiutare Gaza. Da leggere, salvare, condividere.La storia di Xavier, l'oca incompleta - grazie a Julie per avermi regalato il libro, e a Frederik Buyckx per l’artista incredibile che è.
Fate ə monellə! ︎So di non avervelo ancora detto, però ehi: vvb <3
Il miscuglio di lingue nel mio cervello e nel mio cuore produce robe assurde, a volte.
Non riesco a far entrare la totalità del mio amore per te in questo mondo, e così ingrandisco il mondo. Inseguo sempre la coda dei limiti che immagino per la mia esistenza, confondendomi con l'espansione senza fine (mia traduzione).
Mi hai fatto commuovere sulla corriera di prima mattina, mannaggiattè <3
Comunque, per stemperare un po', la mensa degli ospedali "really sucks". Fattelo dire da un Insider, frequentatore assiduo.