The Wild Robot
La storia di un robot e di una piccola oca che diventa grande e spicca il volo. Una famiglia, una comunità, l'amore che sfida ogni logica. Le nostri azioni sovversive.
Attenzione: questa newsletter contiene spoiler sul film in questione, The Wild Robot. Niente che non sia nel trailer però, io la leggerei comunque.
Life is only a moment, a fleeting breath.
But in that moment, we have the power to leave a lasting impact on the world.
Nota a margine
Scrivo questa puntata con tantissima angoscia e un senso di disperazione per il futuro globale, per quello che verrà, per quello che succederà. Sto parlando di politica, ovviamente, ma parlare di politica è parlare di persone, di diritti, di libertà, di democrazia, o del suo opposto. Oggi ho deciso che lascio che l’angoscia scorri, coi suoi tempi, mentre io provo a non starci troppo dentro, non oggi, quindi oggi scrivo di tutt’altro - o forse semplicemente provo a ribaltare la narrazione. Vi parlerò di come la storia di un robot e di una piccola oca, e di tanti altri animali intorno, mi abbiano riportata ai banchi della scuola elementare e catapultata in un futuro pieno di luce. Tenetevi forte, si parte.
Chi mi conosce lo sa, che se vedo un film (o una serie TV) che mi scava buchi nel cuore e non mi fa pensare a nient’altro per giorni e giorni, ne devo parlare. Ne devo parlare, o implodo. Era successo con “All of Us Strangers”, di cui ho scritto in questa puntata, ed è successo di nuovo con il film d’animazione “The Wild Robot”. Quindi eccomi qui, a raccontarvelo. Ma soprattutto a raccontarvi che cosa ha smosso dentro la mia pancia, e dentro alla mia testa.
Inizio con un piccolo avviso: ho pianto per la maggior parte della proiezione. Ho pianto dopo averlo visto, a cena, e piango di nuovo se ci penso, così, a caso, mentre faccio cose. Ora, questo in realtà non dice niente, di per sé, perché io piango se una vecchietta non arriva a prendere la carta igienica al supermercato nello scaffale più alto, piango se un bimbo cade in bici e si sbuccia un ginocchio, piango se passa un’ambulanza a sirene spiegate. Sono una frignona. Sento tutto con estrema intensità, e questa roba a volte è una benedizione, e a volte non lo è (ma di questo parlerò in un’altra puntata, penso). Dicevo, il fatto che io abbia pianto non dice nulla, ma molte persone che seguo su IG e che hanno visto il film pare abbiano avuto più o meno la mia reazione (ok, forse un po’ meno estrema), e questo mi fa riflettere parecchio.
La storia va più o meno così: un robot femmina (femmina, sì), frutto di altissima tecnologia, sopravvive a un terribile naufragio, e si ritrova su un’isola selvatica, circondata da animali e piante, unica creatura tecnologica in un mondo naturale. Il suo nome è Rozzum unità 7134, ma è detta Roz. Accidentalmente, Roz finisce per distruggere un nido di volatili, e soltanto un uovo si salva; quando l’uovo si schiude, esce fuori un piccolo pulcino di oca che, a causa dell’imprinting, riconosce Roz come la sua mamma.
Roz è programmata per portare a compimento dei task, il suo linguaggio è binario, è fatto di un check dopo l’altro, di un padrone da servire, di servizi da portare a compimento. Un linguaggio in cui i fallimenti non sono ammessi. Inizia a vagare per l’isola cercando un obiettivo, e ne trova uno nel piccolo pulcino, che salva dalla furba volpe Fink. Roz deve imparare a fare da genitrice, e nel farlo dovrà insegnare a Brightbill - il nome che ha scelto per la piccola oca - a mangiare, innanzitutto, e a nuotare e volare entro l’autunno, in modo che possa affrontare il viaggio verso sud e sopravvivere all'inverno.
Ora, non vi sto a raccontare tutto il film, ma vi voglio parlare di tre cose (ne ho scelte tre ma ce ne sarebbero di più) che mi hanno assolutamente catturata. La prima: il piccolo Brightbill e le sue difficoltà nell’apprendimento del nuoto e del volo. È evidente, dal racconto e dalle immagini, che Brightbill è “diverso”, che ha bisogno di tempi più lunghi, di metodi forse meno comuni, di supporto duraturo e presente.
Ho pensato molto ai miei primi anni a scuola elementare. Ero intelligente, lo so che lo ero. Ma mi sentivo assolutamente incapace. Piangevo sempre, soprattutto il primo anno. Non sopportavo quel momento, al mattino, in cui papà mi lasciava in classe, prima di andare a lavoro, e con voce solenne (e quel profumo tutto suo), mi dava un bacio e mi chiedeva “posso andare?”. Come se io avessi mai potuto rispondere “no, stai qui, non lasciarmi”. Così rispondevo di sì, certo, ma mi sentivo profondamente sola, diversa. Avevo tanta paura. Paura di non riuscire a imparare: se fossi stata una piccola oca avrei avuto paura di restare indietro, di annegare, di non riuscire mai a spiccare il volo. Poi ce l’ho fatta, ci ho messo un po’ di tempo, io, ma soprattutto la mia maestra Giovanna, a capire che quello lì mi serviva: proprio il tempo. Il mio tempo. E la comprensione. E l’amore. Così ho imparato a scrivere, a leggere, a stare.
Roz e Fink quello fanno: restano. Spingono Brightbill, fanno il tifo per lui, non se ne vanno, aspettano. Gli danno il tempo che gli serve. E nel farlo, scoprono l’amore. Soprattutto Roz, che inizia non solo a riconoscere e a capire, ma anche a fare tesoro di un linguaggio diverso, che non è più fatto solo di task da portare a compimento, e che sente non provenire più dalla sua cassetta di circuiti e luci led, ma da un posto molto più profondo. Un posto inesplorato e selvaggio. Un posto con una vocina che continua a chiamare: “mamma, mamma, mamma”.
Questa è la seconda cosa che mi ha colpito molto di questa storia: la costruzione di un legame genitoriale in un modo assolutamente fuori dai canoni, quasi assurdo, inaspettato. Parliamo di un robot, del resto. Ma l’amore può sfidare la logica. Eccome. E lo fa anche fuori dai film d’animazione, lo fa anche nella vita reale, e penso sarebbe un bene ricordarselo a vicenda, di questi tempi. Del resto si tratta di una logica che abbiamo costruito noi, complice il sistema patriarcale in cui viviamo. Lo ha detto benissimo Michela Murgia nel suo libro postumo “Dare la vita” che ho letto tanti mesi fa1, e che vi consiglio caldamente di leggere:
«Non puoi dire che sono tuoi figli, non li hai partoriti».
Ho sincera compassione per chi insiste a ripetermi questa frase nella convinzione di ferirmi. Ma è una frase che mi indigna, anche. Perché intorno a me vedo tantissimi padri, madri e genitori non di sangue che invece ne restano annichilitə, cancellatə nella loro scelta d’amore per essere ridottə alla funzione biologica, che spesso hanno subìto con dolore e hanno aggirato con enormi sacrifici economici, fisici e rischio sociale.
L’avventura straordinaria di avere una famiglia scelta è quella che vivono Roz e Brightbill, e in fondo anche Fink (sul quale avrei mille cose da dire, ma mi rendo conto che a una certa la dovrò chiudere, sta puntata qua). Sono una famiglia un po’ stramba, forse, ma non per questo meno famiglia, vi pare?
La terza cosa, eccola. Accadono durante la storia, sull’isola, un paio di momenti di grande crisi: quando una navicella continua a comparire per prendere Roz e portarla via, nella fabbrica a cui appartiene, quando scoppia un grande incendio, e persino quando l’inverno si fa troppo rigido e la vita di tanti animali è a rischio. In questi momenti di crisi, si crea comunità: gli animali mettono da parte le proprie differenze, i propri istinti, i propri desideri, e fanno unione per resistere, per lottare, per sopravvivere. Decidono assieme come agire, cosa fare per far fronte al pericolo, e nel farlo si prendono sempre cura di quelli più deboli. Sembra un sogno, un’utopia, ma credo fortemente che sia l’unico modo per resistere a certe forze che opprimono e che disegnano il futuro di nero, di discriminazioni, di restrizioni di diritti, di morte. Di questo ho letto da poco in un libro che si chiama “Mutual Aid - Building Solidarity During This Crisis (and the Next)2” di Dean Spade:
In this context of social isolation and forced dependency on hostile systems, mutual aid - where we chose to help each other out, share things, and put time and resources into caring for the most vulnerable - is a radical act.
In questo contesto di isolamento sociale e di dipendenza forzata da sistemi ostili, il mutuo soccorso - in cui scegliamo di aiutarci a vicenda, di condividere le cose e di dedicare tempo e risorse alla cura delle persone più vulnerabili - è un atto radicale.
Prendersi cura l’unə dell’altrə mentre si lotta per cambiare il mondo è un’azione sovversiva. Forse l’unica che può ancora salvarci.
Avrei altre mille cose da dire su questo film, e forse ci torno, chissà. Intanto, correte al cinema a vederlo, soprattutto portateci le persone piccole, fate vedere loro questa storia d’amore e comunità che sfida ogni logica, questa storia di sentimenti che arrivano da posti che non sempre comprendiamo, questo grande patto di fiducia che ci fa anche lasciar andare qualcunə perché possa davvero fiorire.
Io trovo meraviglioso che ə bimbə di oggi abbiano accesso a storie così.
Mi fa sperare, tantissimo, in queste giornate disperate e un poco cupe.
Cose che ho letto, visto, sentito
- va assolutamente letto, parla di imperfezioni, di perdite, di attese, e di amore: “I noticed him spin in the rain, I noticed him wait in the sun, I noticed us changing. Training Bear trained us both to sit in a world of loss and stay in it, two seconds more at a time. Again and again, Bear made me come home to my goodbyes. And, home to my hellos, to new beginnings, new ways of being.3”
Ho scoperto una nuova newsletter, Project Home. L’episodio 10 parla di olive, di Sicilia, di tradizioni. Spesso mi chiedo cos’è casa per me. Forse la risposta è tutta qui: “Find your “Olives,” your “Coffee Ceremony,” and be jealous about it, don’t give it away. Keep it for yourself. Involve family, friends, and the people you love. Whatever tradition you have that makes you feel at home, give it the love and care it deserves, and it’ll continue to nurture you through every season of your life.4”
Sto guardando “Agatha All Along” - che bella! Voglio rinascere strega :D
Fate ə monellə, che ce n’è un bisogno tremendo <3
Regalato da Donata <3
Il libro è anche disponibile in italiano, dal titolo: “Mutuo appoggio - Costruire la solidarietà durante questa crisi (e la prossima)”
“L'ho visto girare sotto la pioggia, l'ho visto aspettare al sole, l'ho visto cambiare. L'addestramento di Bear ci ha addestrati entrambi a sederci in un mondo di perdita e a rimanerci, due secondi in più alla volta. Ancora e ancora, Bear mi ha fatto tornare a casa ai miei addii. E ai miei saluti, ai nuovi inizi, ai nuovi modi di essere.”
Trovate le vostre "olive", la vostra "cerimonia del caffè" e siatene gelosi, non datela via. Tenetela per voi. Coinvolgete la famiglia, gli amici, le amiche, e le persone che amate. Qualunque sia la tradizione che vi fa sentire a casa, datele l'amore e la cura che merita e continuerà a nutrirvi in ogni stagione della vostra vita.
Col volto rigato di lacrime, nella penombra di un cinema di periferia, mi rivolgo a mia figlia con voce soave, ma spezzata: "Ti è piaciuto?". Risposta "No".
Solita figlia di sei anni, forse troppo piccola per comprendere tutti i messaggi bellissimi dietro questo film e più impressionata dall'azione e dagli effetti cinematografici.
In tutto ciò, quando si sfornano questi capolavori di animazione, è proprio cogente il bisogno di produrne uno ad hoc sul tema delle emozioni, trattandole a mio avviso in modo inopportuno? Ogni riferimento a Inside Out 2 è puramente voluto.
Piantoni anche io 🥹💖