Biciclette e binari del tram
Quando nel lontano 2011 mi sono trasferita a Gent, in Belgio, ho presto rimparato ad andare in bicicletta, essendomi resa conto che fosse il modo più veloce, sostenibile, e - perché no - divertente di spostarsi in città. Ho anche imparato, molto presto ahimè, che i binari del tram erano (e sono) pericolosissimi per chi si muove in bici; basta un attimo di esitazione, una persona da lasciare attraversare, il clacson di un autobus, un momento di paura: se non attraversi le rotaie con un gesto determinato, sicuro, preciso, con un angolo calcolato alla perfezione, le ruote si ficcano dentro, e finisci con il culo per terra. Io ci sono finita diverse volte1.
Quello che rende i binari così pericolosi è senza dubbio il materiale scivoloso di cui sono fatti (combinazione disastrosa con la pioggia), le scanalature delle rotaie (perfette per accogliere le ruote delle biciclette), e infine la mancanza di spazio urbano (che spesso spinge tante biciclette assieme, tutte troppo vicine, o troppo vicine agli autobus).
La settimana scorsa la città di Gent ha comunicato di aver fatto partire un test (l’ennesimo) per provare a risolvere il problema: riempire parzialmente i binari del tram in alcune strade molto trafficate, in modo da ridurre le possibilità che le ruote delle biciclette rimangano incastrate. Se il test sarà positivo (immagino contando quanti incidenti ci saranno nei prossimi mesi), la soluzione verrà estesa a più zone della città.
Leggere questa notizia mi ha fatto realizzare che io non ho mai imparato ad attraversare i binari in bicicletta: dopo essere caduta molte volte, ho deciso tempo fa che li avrei piuttosto evitati, e negli anni mi sono creata dei percorsi alternativi. Oggi so quali strade prendere per sfuggire alle rotaie (anche pedalando più del dovuto) e se una strada alternativa non è possibile, scendo dalla bici e percorro l’ultimo pezzo a piedi. Insomma direi di essermi creata dei veri e propri “desire path” virtuali, una cosa che si è inventato il filosofo francese Gaston Bachelard. Avete presente quei sentieri creati dal calpestio umano, tipo le scorciatoie attraverso i parchi? Sembrerebbe che la strada migliore (qualunque cosa significhi “migliore” in questo contesto) per andare da un punto A a un punto B non sia sempre una linea retta, né necessariamente quella che è stata progettata da qualcuno per noi. Lo scrittore Robert Macfarlane parla dei desire path, anche conosciuti con i nomi kemonomichi (sentieri delle bestie), chemins de l'âne (sentieri degli asini) e olifantenpad (sentieri degli elefanti)2, come di
Sentieri e tracce creati nel tempo dai desideri e dai piedi delle persone che camminano, in particolare quei percorsi che corrono in direzione opposta alla progettazione o alla pianificazione. Vie del libero arbitrio.
Il web è pieno di immagini di desire path; esiste un gruppo Flickr con quasi novecento fotografie, e ho persino trovato una comunità su Reddit:
Insomma, se la città progetta percorsi che io non voglio attraversare, per un motivo o un altro, mi trovo costretta a cercare sentieri diversi. Questo delle biciclette e delle rotaie del tram è un problema che Gent prova a risolvere da tanto tempo, e la cosa un po’ mi diverte: abbiamo a disposizione tecnologie all’avanguardia (l’intelligenza artificiale!), dati di ogni tipo e natura, eppure non riusciamo ancora a fare coesistere questi due mezzi di trasporto in modo sicuro all’interno della stesse rete viaria. E la cosa mi fa diverte ancora di più quando penso che negli ultimi anni non abbiamo fatto altro che parlare di smart cities (città intelligenti - Gent per molti aspetti lo è), ovvero di nuclei urbani dove i servizi pubblici sono innovati e ottimizzati attraverso l’uso di tecnologie e raccolte dati, per “mettere in relazione le infrastrutture materiali delle città con il capitale umano e sociale di chi lo abita”. Tutto bellissimo, no? Eppure io continuo a non sapere come attraversare i binari in bicicletta senza che mi prenda l’ansia di cadere e farmi male.
Progettare gli spazi seguendo i desideri
La verità è che la tecnologia non riesce a risolvere tutti i problemi del mondo, e molto probabilmente alcune scelte di progettazione degli spazi che abitiamo dovrebbero essere semplicemente guidate dai nostri comportamenti, ma soprattutto dai nostri desideri.
Qualche tempo fa ho scoperto il lavoro del gruppo di ricerca dell’MIT Senseable City Lab, che ha deciso di abbandonare l'etichetta di “smart cities” e ha preferito piuttosto iniziare a parlare di “senseable cities” - un aggettivo che in inglese rimanda a “sensitive”, cioè sensibile. Parliamo quindi di città che sì utilizzano tecnologie sofisticate e raccolte dati del ventunesimo secolo (se serve), ma che mettono l’utente e i suoi desideri al centro, con la sua sensibilità, intesa proprio come l’insieme di impressioni che riceviamo attraverso i nostri sensi quando abitiamo gli spazi pubblici. Impressioni come l’ansia che mi prende quando mi avvicino alle rotaie del tram in bicicletta.
L’MIT Senseable City Lab usa una metodologia di ricerca che combina intelligenza artificiale e big data da un lato con partecipazione civica dall’altro. Quello che fa la differenza quando si raccolgono dati in un contesto urbano (ma anche altrove) è sicuramente l’intenzione e la cura che stanno alla base di questa raccolta (lo spiega benissimo Donata Columbro nel suo ultimo libro). Uno studio a Boston, ad esempio, ha provato proprio a capire che cosa rende alcune strade particolarmente attraenti, dei veri e propri desire path, tanto da spingere alcune persone a camminare un po’ di più di quello che dovrebbero per raggiungere la loro meta3. Tre cose sembrano essere particolarmente importanti: l’accesso a parchi e verde, negozi e attività commerciali nelle vicinanze, e marciapiedi e arredo urbano (qui una data visualization interattiva molto carina). Persino fornire i nostri dati più privati acquisisce tutta un’altra dimensione quando quello che si sta studiando è la segregazione sociale e fisica dentro un ambiente urbano, e le pratiche politiche per ridurla. Un altro studio, stavolta a Singapore, ha utilizzato dati di telefonia cellulare per analizzare come le persone si spostano dentro la città e come interagiscono con individui di diverso stato socioeconomico. Il team di ricerca ha definito due indici di segregazione, uno di comunicazione, e uno fisico, e ha trovato che entrambe queste misure sono relativamente più alte per le persone più ricche (qui un’altra data visualization).
Ma la progettazione “sensibile” di spazi da abitare non può che prevedere non solo il dialogo con le persone che dentro questi spazi si muovono, vivono, amano, crescono, ma proprio la loro diretta partecipazione. E così a Pristina, capitale del Kosovo, la battaglia per lo spazio pubblico ha preso la forma dell’”urbanistica open source e partecipativa” supportata dalla tecnologia. Sono state dapprima create una serie di mappe per esaminare lo stato dello spazio pubblico della città e distinguere i luoghi chiave - piazze e strade, parchi e aree verdi - che avessero bisogno di riqualifica. Una serie di interventi urbani ha poi preso forma e le persone residenti sono state chiamate a “votare con i piedi”, a recarsi cioè sui luoghi e decidere se questi interventi dovessero diventare permanenti, dei desire path intenzionali, vere e proprie forme di riappropriazione dello spazio pubblico, oppure se essere modificati o scartati.
Insomma, queste linee del desiderio anarchiche e resistenti non possono essere ignorate. E tanti architettə e designer per fortuna non lo fanno, così i desire path vengono usati per informare la pianificazione urbana da tanto tempo, soprattutto per i campus universitari. L’Università statale del Michigan, ad esempio, ha deciso di non costruire marciapiedi asfaltati quando ha creato nuovi edifici, ma ha aspettato che fossero studenti, studentesse e insegnanti a creare i loro percorsi, a imprimere nel terreno le proprie orme, una camminata dopo l’altra, un giorno dopo l’altro. E spesso i desire path sono lì a testimoniare il passato, come nel caso della strada Broadway, a New York: la strada segue il sentiero Wickquasgeck creato dalla popolazione nativa americana e si pensa sia stato il percorso più breve tra gli insediamenti pre-coloniali di Manhattan che permettesse di evitare paludi e colline.
Celebrazione della disobbedienza collettiva, i desire path sono forse anche testimonianza fisica dell’infinito desiderio umano che abbiamo di avere sempre una scelta. Una cosa è certa - la prossima volta che salterò in bicicletta, e sceglierò una strada alternativa per sfuggire alle rotaie del tram, penserò a questa cosa come a un piccolo atto di ribellione, che spero un giorno diventi sentiero battuto, sicuro e desiderato.
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho letto l’ultimo libro di Donata Columbro, “Quando i dati discriminano”. È un saggio che fa il punto su tanta roba importantissima. Mi è piaciuta moltissimo la scrittura, la tesi presentata, ma soprattutto la cornice filosofica e scientifica intorno a questa. Ne parlerò sicuramente di nuovo :)
Ho visto “Red White and Royal Blue”: una storia d’amore queer, una presidente degli USA donna, una prima ministra UK nera - more of this, please 😍
By the way, l’attore Nicholas Galitzine ha spiegato in un’intervista che dice di sì a tanti ruoli gay e queer perché sa quanto è importante sentirsi rappresentatə, e che desidera che la comunità LGBTQIA+ abbia dei film smielati di riferimento in cui rivedersi.
Ho ascoltato l’episodio 15 di Shirley, il podcast di Elena Canovi. Un episodio dedicato al saggio “Asessualità. Prospettive queer e femministe contro l’allonormatività” di Caterina Appia (che è anche l’ospite della puntata). È un tema di cui so poco e mi piacerebbe saperne di più, e il podcast è chiarissimo e piacevole da seguire (e poi potrei ascoltare Elena per ore!).
Ci sentiamo giovedì prossimo? Chi può dirlo?! Frattanto, fate ə monellə!
Dai dati delle unità di pronto soccorso a Gent si stimano circa 500 incidenti all’anno, ma i veri numeri sono ovviamente più alti.
Non ne ho trovato una traduzione in italiano, nemmeno sulla pagina Wikipedia.
Questo dato è vero solo per persone che possono camminare senza difficoltà, o per quelle che dovendo spostarsi in carrozzina non trovano ostacoli e barriere architettoniche.
Come sempre, spunti meravigliosi raccontati meravigliosamente! Il tema dello spazio urbano mi affascina e l'anno scorso ho partecipato a una ricerca dell'associazione Sex and the City, che ha mappato la percezione della sicurezza degli spazi milanesi rispetto al genere. L'ho trovato un lavoro interessantissimo. Le socie fondatrici hanno anche pubblicato dei libri (rimando al loro sito https://sexandthecity.space/). Le donne - o le persone che non si identificano come uomini - sono abituate da sempre a cercare "vie alternative" per questioni di sicurezza e sopravvivenza. Un abbraccio, Paoluzza!
Non conoscevo il concetto di "desire path", credo he ognunə di noi ne abbia almeno uno. E poi, mi sono messa a pensare a quanto questo concetto sia applicabile a tante aree della nostra quotidianità, non solo le vie cittadine. Evviva le ribellioni che ci permettono di trovare sentieri più accessibili e in linea con i nostri desideri! Intanto inoltro questa newsletter a un po' di persone che so la ameranno 🔥