Quando suona la campana
Un rituale che dice che le cure per il cancro sono finite, e che c'è da rallegrarsi. Un rituale che io scambierei volentieri con un abbraccio. Anzi, tutti gli abbracci del mondo.
After the night, when I wake up
I'll see what tomorrow brings
Oggi ho dovuto rifare quella cosa lì, quella di andare da un medico e portargli tanti fogli dall’ospedale, e raccontargli dell’ultimo anno, della malattia, e della fatica. Era già successo e ne avevo raccontato in questa puntata qui. Questo medico però, oggi, mi ha fatto tante domande anche sul passato - da dove arriva lei, quanti anni ha, cosa ha studiato e quanto ha studiato, le piace andare in bici? le piace mangiare al ristorante, avere una vita sociale? come sta? si sente depressa? o è più fatica, ma tutto sommato la tiene sotto controllo? e la psicologa, quante volte al mese la vede? e in ospedale, quante volte ci va?
Così mi siedo sulla sedia e inizio a parlargli dei miei studi, dei miei viaggi, gli descrivo il mio lavoro, gli dico che mi piace(va) andare in bici, gli dico anche che a mio marito piace molto cucinare, che vorrei tornare in Sicilia un giorno, che mi mancano le mie colleghe e i miei colleghi, che ho voglia di lavorare, ma che al pomeriggio, dopo pranzo, se non mi sdraio un po’ a dormire, chiudere gli occhi, rallentare il pensiero, io certe giornate non le sfango mica.
Non glielo dico così, ovviamente, perché, non capisco come, ci ritroviamo a parlare un misto di inglese e olandese, e ci siamo finitə in modo naturale e non so nemmeno perché. Sembriamo capirci, però. Non ha bisogno di farmi una visita clinica, io gli mostro comunque il mio port-a-cath, non so perché, lo so che mi crede, ma glielo faccio vedere comunque come una medaglia d’onore. Strano. L’ho chiamato Portia, vorrei dirgli, ma mi rendo presto conto che forse lui non lo vuole sapere. Dopo una decina di minuti il medico mi dice che sembro avere una vita piena - l’avevo, gli rispondo io. È ancora la sua vita, vuole dire lui, e me lo dice con parole diverse: oggi con un cancro al seno come il suo ci sono molte più probabilità di vivere una vita lunga e piena di quante ce ne fossero 10 anni fa. OK - penso io. Tante cose sono in pausa, ma io penso proprio che lei potrà tornare a lavorare, qualche mese di riposo dopo la fine della chemioterapia, e poi a poco a poco potrà rientrare - dice lui - e non per i soldi - continua ancora - ma perché impegnare le sue giornate in un’attività che ha struttura, tempi, e ritmi, libererà spazio nella sua mente, e lei non penserà più al cancro come ci pensa ora. Io mi metto a piangere un pochino (che shock!).
Lei non penserà più al cancro come ci pensa ora.
L’altro ieri seduta sul divano ho aperto una rivista, questa qui, su un articolo che si intitola “When treatment’s over” (in italiano potremmo dire “Quando il trattamento sarà finito”) e ho iniziato a leggere il pezzo ad alta voce, lui seduto sul divano vicino a me. Vi metto il post con le illustrazioni per il pezzo, di Irina Perju.
L’articolo parla di cosa significa, spesso, lasciarsi alle spalle un’esperienza traumatica come quella del cancro, una malattia “life-threatening”, che mette a rischio la tua vita, che insomma è potenzialmente mortale. L’articolo, in tutta onestà, avrei potuto scriverlo io: mi sono ritrovata a pensare esattamente ogni parola almeno una volta nell’arco dell’ultimo anno. Ho visto, solo dopo aver finito la lettura, che il pezzo era a cura della dottoressa Stacy Wentworth, che, tra l’altro, cura la newsletter
che leggo da un bel po’ di mesi qui su Substack.Una cosa menzionata nell’articolo in particolare mi ha colpito. Esiste una sorta di tradizione, nata nei centri di cura oncologici americani, e poi diffusasi soprattutto in UK, che consiste nel suonare una campana, "ring the bell", quando si conclude il trattamento per il cancro, in particolare al termine della chemioterapia. Finisce un momento di miseria e di terrore, di malessere e di paure, e suonare la campana è un gesto liberatorio, un’occasione gioiosa di celebrazione, per ə pazienti, le loro famiglie, e persino per il personale che si è preso cura di loro.

Esiste, tuttavia, una serie di studi scientifici che hanno esplorato l’impatto psicologico di questo rituale, portando alla luce risultati parecchio contrastanti. Uno studio del 20191 dell'Università della California del Sud ha intervistato oltre 200 pazienti oncologicə, circa la metà dei/delle quali ha partecipato alla cerimonia di suonare la campana. Contrariamente alle aspettative, coloro che hanno suonato la campana hanno riportato livelli di angoscia più alti legati al loro trattamento rispetto alle persone che non l'hanno fatto. Le persone responsabili della ricerca hanno suggerito che l'emozione intensa durante il suono della campana potrebbe amplificare i ricordi dei momenti più angoscianti del trattamento, portando a ricordi negativi più pronunciati nel tempo. Allo stesso modo, uno studio del 2020 pubblicato nel Journal of Radiation Oncology ha rilevato che ə pazienti che hanno partecipato al rituale di suonare la campana hanno vissuto ricordi più angoscianti del loro trattamento rispetto a quellə che hanno completato il trattamento senza la cerimonia. Lo studio ha proposto che l'atto di suonare la campana potrebbe creare quello che in inglese è noto come un flashbulb memory, una specie di ricordo fotografico, che imprime vividamente le esperienze stressanti associate al trattamento oncologico nei ricordi delle/dei pazienti.
Fortunatamente a Gent non si suona la campana, e dico fortunatamente perché io non avrei voluto suonarla. Mi piace pensare che nessuno mi avrebbe costretta. Allo stesso tempo mi dispiace molto leggere sul web testimonianze di pazienti oncologicə che non vogliono suonare la campana, ma che finiscono per farlo per le altre persone, per i loro genitori, per le loro mogli, i mariti, ə figliə, amicə. Persino per il personale medico, perché in fondo c’è da rallegrarsi. Ma è davvero così?
Ricordo benissimo la mia ultima seduta di chemioterapia. Una persona mi fece trovare una papera gialla bellissima. Un’altra un peluche unicorno. L’infermiera che allora mi seguiva e sapeva tutto di me non c’era, così ne arrivò un’altra, tanto gentile e brava, e poi un’altra ancora mentre ero già impegnata con la terapia. Alla fine della seduta mi tolse l’ago, mi disinfettò l’ingresso di Portia, e poi mi disse:
questo cerotto per te non va bene, la prossima volta te ne metto uno che non ti dà allergie.
E io le risposi - il peluche in mano - ok, grazie. Mia madre era lì, accanto a me, e mia madre di olandese non capisce assolutamente nulla, ma, come mossa da una mano invisibile, si girò e mi disse:
no, Paola, non c’è una prossima volta, hai finito.
Me ne sono dimenticata, come sia possibile non lo so, forse la forza dell’abitudine, il rituale dell’ago che lascia la mia pelle, il cotone, il cerotto. Lo dico all’infermiera, che era nuova e non sapeva, le dico:
non torno più, questa era la mia ultima seduta, ho finito.
Scoppio a piangere e mamma mi segue a ruota. L’infermiera mi chiede se per caso voglio un abbraccio, e io le dico sì, sì, eccome, così si abbassa sulla sedia, dove io tengo ancora il peluche tra le mani, e lei sa di disinfettante e vaniglia, chiudo gli occhi mentre tiro su col naso e penso - il profumo più buono del mondo, non voglio dimenticarlo. L’infermiera indossa la mascherina e non riesco a vederla bene in volto, ma so che ha gli occhi lucidi, quel che basta per dire che sa, che ha visto, che conosce questo sentimento qui. Ha le mani piccole, morbide, mi fa dei grattini alla schiena e con le dita mi accarezza le spalle. Io non riesco a smettere di piangere. So che non è finita, e del resto poi ci sarei anche tornata, là dentro, a distanza di mesi, ma so anche che è l’ultima volta in cui quel liquido rosso mi entra nelle vene, e lentamente uccide tutto quello che incontra. So che è l’ultima volta in cui non avrò appetito, e avrò freddo e insieme caldo, e mi faranno male la pelle e le ossa tutte quante, e vorrò solo stare a letto a piangere disperata o dormire. So che è l’ultima volta, e che sono stata coraggiosa - e non è scontato, mi ha detto lei, e io a lei, così, in linea di massima, credo sempre.

Quel medico stamattina mi ha detto che ho una vita piena, che presto tornerò a fare le mie cose, a vedere colleghi e colleghe, a lavorare, a riempire la testa di roba e di amore e di faccende e di pensieri, e così penserò di meno al cancro. Lei non penserà più al cancro come ci pensa ora. E forse è vero, forse è come dice lui, forse ci sarà più spazio dentro di me e accoglierò il passato in modo diverso, e assieme a lui, finalmente, la possibilità di un futuro.
Un futuro fatto di abbracci. Tutti gli abbracci del mondo.
Cose che ho letto, visto, sentito
Forse lo sapete già ma io non lo sapevo: ho scoperto che tutto il concerto live di Stromae, del suo album Racine Carrée, è online su YouTube. Ve lo dico perché tra poco esce il suo film su Multitude!
Lo so che vi metto sempre le stesse letture, ma che ci posso fare se questa newsletter ogni volta è stupenda? Leggete l’ultimo numero di
e provate a immaginare come sarebbero le vostre 7 vite, se aveste 7 vite. Io ci scriverò un numero. “In my last life I want to be clueless, I want to be me, to be kind not in the way others expect of me. I’d be kind for myself and to myself. In this life I hope I’m simultaneously my mothers father and my fathers father because as much as I needed love and protection. I’ve realized they needed it more. They too were once kids, my mother is simply someone’s daughter, she doesn’t have all the answers in her head, and my dad ? a shy little boy, the most beautiful boy ever, someone’s beautiful boy.2”Una canzone con cui sto in fissa da qualche giorno (aaaaah my brain!): Fucina, di Francamente. Che note, che voce. Innamorata.
Ci sentiamo presto, monellə! vvb <3
Si, vi ho messo il link a Sci-Hub perché lo studio non è open access. Sue me.
Nella mia ultima vita voglio essere inconsapevole, voglio essere me stesso, essere gentile non nel modo in cui gli altri si aspettano da me. Sarei gentile per me stesso e verso me stesso. In questa vita spero di essere contemporaneamente il padre di mia madre e il padre di mio padre, perché per quanto avessi bisogno di amore e protezione, ho capito che loro ne avevano bisogno ancora di più. Anche loro sono stati bambini una volta, mia madre è semplicemente la figlia di qualcuno, non ha tutte le risposte nella sua testa. E mio padre? Un ragazzino timido, il ragazzo più bello di sempre, il bambino bello di qualcuno.
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