Presente progressivo
Di clinical trial, coniugazioni verbali, parole da inventare, e spazi da abitare.
Dangling feet from window frame
Will I ever, ever reach the floor?
Questa settimana volevo pubblicare un pippone sulle Olimpiadi, bello pronto in testa e tutto. All’ultimo ho deciso che no, forse più avanti. Oggi il pippone parla di cancro, chemioterapia, tempi e spazi vuoti, mancanza di parole, e coniugazione di verbi. Mi dispiace, ma se decidete di stare qui, vi tocca.
Torno al day hospital di oncologia dopo quasi quattro mesi. Il reparto è più o meno lo stesso - molti più disegni colorati qua e là, e una macchinetta che ti misura i vitals senza passare dall’infermeria - ma ə pazienti mi sembrano tuttə diversə. Forse è il turno di martedì, mi dico. Forse sono tuttə guaritə. Lo spero.
Questo reparto qualche mese fa era come una seconda casa. Faccio un ripasso mentale di quello che è successo, a grandi linee, dallo scorso novembre a oggi - come se poi potessi mai dimenticarmene - 12 sedute di chemioterapia I + 4 sedute di chemioterapia II + intervento chirurgico + 15 sedute di radioterapia. Al momento dell’intervento chirurgico, mi spiega il medico, il tumore è piccolo, siamo riuscitə a fermarne la proliferazione, ha risposto bene alla chemioterapia, ma c’è ancora quella che si chiama malattia invasiva residua. Insomma, non ce ne siamo liberatə del tutto. Che culo. Serve altra chemioterapia, mi spiegano. Anzi, aggiungono, lei è la candidata ideale per un trial clinico in fase 3 che sta studiando un farmaco sperimentale, se la sente di partecipare? Non mi tiro indietro - mica adesso - facciamo lo screening. Esami su esami. Il sangue, le urine, i polmoni, l’addome, gli occhi, il cuore. Chi più ne ha più ne metta.
È tutto perfetto. Se non fosse per il cancro, ovviamente.
Il trial è open label - sia il mio medico che io sappiamo in che gruppo terapeutico finisco - ed è randomizzato - sarà cioè un algoritmo al computer a decidere che terapia riceverò: la sperimentale, o quella usata al momento?
Il computer mi assegna al gruppo di controllo - niente farmaco sperimentale per me. Che culo. E dire che ero la candidata perfetta. Poi mi dico che sì, anche i gruppi di controllo sono importanti, in realtà sono essenziali, lo so: serve un segnale robusto contro cui valutare risultati nuovi, roba che ancora non capiamo bene. Ho un dottorato in scienze della salute, ho studiato bioinformatica, queste robe le so, sono sicura di saperle. Me le ripasso, mi servono. Respiro.
Così torno al day hospital di oncologia dopo quasi quattro mesi. È tutto uguale, ma mi sembra tutto diverso. Ci sono più disegni, scatto qualche foto. Mi viene da piangere, ma mi faccio forza. Riconosco l’infermiera che mi seguiva - una delle tante - caschetto rosso, naso all’insù. È incinta, vedo. Chissà se può ancora somministrare chemioterapia, o se dovrà solo fare prelievi e medicazioni per i prossimi mesi? - mi domando. Mi sorride, faccio un cenno con la testa. Sono tornata, dico.
Mi fermo a guardare ə pazienti intorno. Ci riconosci subito, a noi pazienti, perché portiamo un piccolo braccialetto bianco al polso sinistro, con nome cognome data di nascita e un codice che viene scansionato a ogni angolo del reparto, a ogni passo di ogni protocollo terapeutico. Ma anche senza braccialetto, ci riconosci uguale. O forse ci riconosciamo tra di noi. I nostri sorrisi, i minuscoli cenni del capo, le cose che ci diciamo senza dire assolutamente nulla. Non parliamo, non ne parliamo, non ci scambiamo storie, affanni, preoccupazioni, idee. Non ci diciamo a vicenda delle rotte che abbiamo programmato con cura, e di quando il viaggio invece si è presentato alla porta completamente diverso da quello che ci eravamo illusə di scegliere. Ci limitiamo ad abitare lo stesso spazio, lo stesso tempo. Sulle poltroncine marroni, sui divanetti neri. Aspettiamo. C’è chi ha l’audacia di trascinarsi alla macchinetta del caffè, chi legge un libro, ma poi lo vedi che rimane sempre sulla stessa pagina. Quellə che arrivano per la prima volta sono facilissimə da riconoscere: entrano in reparto con passo deciso, ma appena voltano l’angolo e si trovano davanti la segreteria, e le poltroncine, e i divanetti, si fermano. Si guardano intorno, provano a infilarsi tutto dentro, dentro la testa, dentro gli occhi, dentro le narici - ma lo vedi che qualcosa non torna, lo vedi che si chiedono - che ci faccio, qui? come ci sono finitə, io, qui dentro? Poi in genere arriva un’infermiera, bip bip il codice sul polso, la prego si accomodi, c’è da aspettare un attimo. E la confusione sembra scemare un attimo, perché diventi parte di un processo, e ti sforzi di stare al passo.
Dopo qualche settimana capisci che era una bugia: non c’è mai da aspettare un attimo. Non si aspetta mai, un attimo, al day hospital di oncologia. Ci sono troppe condizioni al contorno da rispettare, troppi limiti in un’equazione fragile che prova con tutta se stessa a far tornare i conti. Tantə pazienti, non abbastanza medicə, le analisi del sangue sono arrivate? La farmacia ha preparato le medicine? Quanto tempo serve per una sacca di sangue? Non è mai un attimo.
Non lo è stato nemmeno stavolta. Dopo ore interminabili riesco finalmente a vedere il medico. Come sta, signora? Dico bene, dai, sono stata peggio. Ma lo sento, che sto per piangere. Sento che qualcosa sta per rompersi, ho già la vista annebbiata mannaggia a me a piangere sempre con tuttə. Lo sento, che lui non mi crede - è sicura, signora? Dico - è solo che io qua non ci voglio stare, non ci volevo tornare. So che mi capisce, accenna a un sorriso, chissà quante volte si sente ripetere questa frase, inizio a piangere, gli dico che tra poco ho quarant’anni ma che piango come una bambina. Mi risponde che è normale, ma che lo fanno per me, il suo bene, signora, solo di questo ci importa.
Sarebbe più semplice prendermela con lui. Ma è caro, gentile. Sorride bene. È un sorriso che nasconde un po’ di tristezza, ma che sembra determinato a non mollare. Siamo tuttə foglie in bilico sullo stesso ramo, penso.
Penso anche a quella storia lì, com’è che era? Avere la pazienza di accettare le cose che non si possono cambiare, o giù di lì. Solo che io di pazienza, in generale, nella vita, non ne ho mai avuta granché.
Deve tornare la settimana prossima, mi dice. All’inizio faremo prelievi più frequenti, dobbiamo monitorare i globuli bianchi e rossi, le piastrine, la sua emoglobina che ha fatto molto i capricci durante la prima chemioterapia. Quando capiamo qual’è la dose che funziona meglio, per lei, può venire in ospedale una volta ogni tre settimane. OK, dico. E nel frattempo? - domando. In che senso? - mi chiede lui. Non so come spiegarlo, a lui, che non ho un nome per questa fase di passaggio, e che non avere un nome mi confonde, mi uccide. Allora gli chiedo - senta, dottore, ma io ho il cancro o avevo il cancro? È abituato, alle mie domande, ma gli fanno ancora effetto, lo noto perché si riaggiusta sulla sedia, dietro la scrivania, aggrappandosi con più forza ai bordi, prima di dire - bella domanda. Lei aveva un tumore, non ce l’ha più. Il cancro, però, non è ancora passato. Diciamo che lei sta guarendo dal cancro. Ma io mi ostino - dottore, quando ne parlo, devo usare un tempo passato o un tempo presente? E lui ce la mette tutta, lo vedo che ce la mette tutta - signora, dica che lei sta guarendo dal cancro. Lei al momento sta guarendo dal cancro. È un tempo presente, decido. Un presente progressivo, mi conferma Google. Mentre scrivo, sto guarendo dal cancro. Mentre leggo, sto guarendo dal cancro. Mentre mangio, mentre dormo, mentre passeggio. Mentre piango, sto guarendo dal cancro. Me lo faccio andar bene.
È finalmente finita la mia mattinata in ospedale, sono passate cinque ore. Mi fanno installare un’app sul telefonino, devo usarla ogni giorno per rispondere a delle domande sul mio stato di salute e raccogliere dati per il trial. Faccio ricerca, forse faccio anche la storia, chissà. Mi danno creme e cremine, spazzolini, dentifrici, collutori. Mi spiegano cos’è la sindrome mano-piede, mi dicono che molto probabilmente succederà nelle prime settimane di cura. Ricevo le pillole in una bustina trasparente con un’enorme etichetta gialla sopra: attenzione, prodotto citotossico, lavarsi le mani dopo l’utilizzo. Mi viene da ridere.
Me ne torno a casa, chiamerò qualche amica per piangere un po’. Forse no.
Andrà tutto bene, mi dico. Ma so che non posso promettermelo.
Fin qui tutto bene, mi correggo. Dai, tutto più o meno bene.
Cose che ho letto, visto, sentito
Questo reel su IG: una canzone al mio corpo. L’ho salvato e me lo ascolto una volta al giorno, tutti i giorni. From my birth to my grave / every step I’ve taken my body came / through the joy and the pain / we dance in the river we sing in the rain / my body’s my buddy oh through me and of me / oh god, what an honor to see her to know her to love her1
Un’altra canzone, più famosa, di Billy Joel, Vienna: Slow down you crazy child / Take the phone off the hook and disappear for a while / It's alright, you can afford to lose a day or two (oooh) / When will you realize, Vienna waits for you?2
Una poesia di Emily Dickinson: “Chi è amatə non conosce morte, perché l'amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina. Chi ama non conosce morte, perché l'amore fa rinascere la vita nella divinità.”
Ci sentiamo presto, monellə! vvb <3
Dalla mia nascita alla mia tomba / ogni passo che ho fatto il mio corpo è venuto con me / attraverso la gioia e il dolore / danziamo nel fiume cantiamo sotto la pioggia / il mio corpo è la mia amica oh attraverso di me e di me / oh dio, che onore vederla, conoscerla, amarla
Rallenta, bambina pazza / Stacca il telefono e sparisci per un po' / Va bene, puoi permetterti di perdere un giorno o due (oooh) / Quando capirai che Vienna ti aspetta?
Sono incantata, toccata, commossa dalla meraviglia delle tue parole. Io non so scrivere bene, ma mi stupisco di quanta bellezza si può trasmettere anche attraverso il proprio dolore. Ti auguro tanta forza, tanta gioia
Mi piace il presente progressivo. E poi hai parlato di olimpiadi, la tua, molto più importante di un escherichiacoli sulla Senna. E quando il presente progressivo lascerà il posto al tempo verbale migliore per dire che tutto è alle spalle, festeggeremo tutti insieme una medaglia meritata. E poi, a me puoi dirlo, il vero motivo per cui sei tornata, alla fine, è per provare la mensa. Un mezzo sorriso in mezzo alle lacrime me lo regali? Un abbraccio.