Cinque giovani donne, amiche dai tempi della scuola, partono per la loro annuale vacanza estiva; una tradizione cara a ciascuna, che quest’anno vede un nuovo gesto entrare nel rituale che precede la partenza: si rasano tutte i capelli. A una di loro è stato appena diagnosticato un cancro, anche se non ci è dato sapere a chi delle cinque. In solidarietà all’amica che ha appena ricevuto la diagnosi, e prima che inizi la chemioterapia, prendono tutte in mano forbici e rasoi elettrici, e tra sorrisi e lacrime si rasano a zero.
Si apre così la miniserie del 2022 “Las de la última fila” (in italiano, “Le ragazze dell’ultimo banco”1), un prodotto televisivo che parla di cancro, sì, ma soprattutto di sorellanza, di amicizia, di condivisione. Un racconto che inizia con un’ingombrante lettera C (quella di Cancro) virtualmente tatuata sulla testa di ognuna delle cinque donne, e che strada facendo rivela invece la complessità e la fragilità di ogni vita, che sia stata segnata dal cancro o meno.
La serie non l’ho ancora finita (soprattutto perché devo stare attenta alla mia salute mentale, e “prendere il cancro a piccole dosi”), ma la sua scena iniziale (che ho visto a singhiozzi) mi ha convinta a scrivere di una cosa che mi bolle dentro da un po’ di tempo: la femminilità, il suo copione da seguire, e se e come questo copione cambi quando si è malate2.
Disclaimer: ho tante domande e poche risposte, abbiate pazienza.
Qualche settimana fa ho finito di leggere “IM/PAZIENTE Un’esplorazione femminista del cancro al seno”, soffermandomi non senza rabbia su certi passaggi legati alla bellezza femminile, e sulla narrazione collettiva del “conservare la propria femminilità” come arma per combattere la malattia. Ho poi girato una domanda su Instagram “Cos’è per te la femminilità?” e ho ricevuto una serie di risposte molto interessanti, che ho potuto dividere in due gruppi (più o meno). Il primo che chiaramente definisce la femminilità come una costruzione sociale, e il secondo che invece accenna alla cura di sé, del proprio corpo, e anche alla relazione con l’altrə.
Il copione della femminilità per combattere il cancro
Definire la femminilità non è semplice (molto probabilmente nemmeno necessario), soprattutto perché sono consapevole di indossare le lenti di una donna bianca, eterosessuale, e con un corpo abile, e so che i miei occhi vedono solo parte della realtà3. Il pezzetto che non c’era sette mesi fa, e che posso aggiungere oggi, è quello di una donna malata. Una donna che ha un cancro che, ci piaccia o meno, ha a che vedere con una parte del corpo di sesso femminile che è da sempre segno di sensualità e femminilità: i seni. Un cancro la cui terapia causa la caduta di capelli.
Quando è arrivato il momento della chemioterapia, il mio vissuto è stato pressapoco identico a quello delle cinque donne della serie televisiva: avevo i capelli lunghi, molto lunghi, e quando in ospedale mi hanno detto che sarebbero caduti, ho pianto molto. Ogni volta che unə medicə o un’infermiera mi ricordavano che sarebbero caduti, io piangevo. Mi hanno raccomandato di tagliarli, per rendere l’esperienza della caduta meno traumatica. Così un giorno una mia cara amica ha preso in mano un paio di forbici e me li ha tagliati cortissimi. Io piangevo. Poi, quando sono iniziati a cadere, mi sono seduta dentro la vasca da bagno e mio marito mi ha rasato la testa a zero. Io piangevo.
In tutto ciò, provavo ad accettare la possibilità di dover subire una mastectomia, e non sapevo nemmeno come mi sentivo, a riguardo. So solo che allo specchio non mi riconoscevo più. Mi permetto di usare le parole di Maëlle Sigonneau, morta di cancro al seno metastatico, la cui storia con la malattia è raccontata in IM/PAZIENTE:
Non ho pianto quando mi hanno parlato di mastectomia, ma sono crollata all’idea di perdere i capelli.
Sembrerebbe una condizione comune a molte donne. Quando il primo medico che ho incontrato nel mio percorso di cura mi ha detto che sarebbero caduti i capelli, vedendomi piangere, ha aggiunto “Lo so, signora, è la parte più difficile, questa”. Io non capivo come fosse possibile. E poi sono caduti tutti gli altri peli del mio corpo. Quelli sotto le ascelle, quelli sulle gambe, sulle braccia. I peli pubici. Poi le sopracciglia, e infine anche le ciglia. Il mio corpo è diventato una tela bianca su cui a poco a poco si imprimevano gli effetti della terapia e la memoria del cancro. Le nausee e i dolori, uno dopo l'altro, si facevano posto, quasi in sordina, sul corpo di una bimba, in un rituale che ho imparato a conoscere, a riconoscere, a odiare e a osannare.
In tutto ciò, non mi sentivo più donna. Sentivo di non essere più femminile. Perché il cancro è anche questo: è alzarsi al mattino e incontrare allo specchio quel che rimane di ciò che si era.
Solo che io non volevo riconoscermi, volevo conoscermi di nuovo, che è una cosa molto diversa.
Durante la chemioterapia, in ospedale, mi raccomandavano di “prendermi cura di me”. Questa cosa significava mangiare, bere a sufficienza, e uscire a camminare dieci minuti nei giorni di respiro, ma anche usare creme e lozioni corpo in quantità (meglio se delle marche suggerite in reparto) per combattere la pelle secca, idratare il viso ogni giorno più volte al giorno, sopperire alla mancanza di sopracciglia con matite e penne colorate, e mettere sempre un po' di correttore per coprire le occhiaie.
Alcune di queste cose le ho fatte, nei giorni in cui stavo meglio e avevo energie a sufficienza, ed hanno anche aiutato il mio spirito (mi sono persino sparata delle foto bomba che poi sono passata a caricare su Instagram). Usare il trucco su un corpo che stava cambiando radicalmente, però, è stato a tratti alienante e profondamente triste. Come dicevo in questo episodio, ho scelto di rivendicare la parola “malata” e le mie occhiaie fin da subito, quasi con prepotenza. Ma la verità è che mi sono presto resa conto che abbiamo molta paura a guardare in faccia la malattia, paura a nominarla, paura a riconoscerla. E allora abbiamo bisogno di coprire, di mascherare, di nascondere.
Il trucco è una gentilezza che ho spesso rivolto aglə altrə, prima ancora che a me stessa, soprattutto da quando sono malata.
Un po’ di matita, il correttore, il mascara no che le ciglia non ci sono più, un po’ di fard, un illuminante. Ed ecco che le tracce della malattia sono state cancellate, con gran sollievo di tuttə.
Non voglio demonizzare il trucco: come dicevo prima l’ho usato, lo uso, e mi ha fatto sentire meglio in tantissime occasioni. Credo di comprendere anche quanto sia difficile guardare le persone che amiamo cambiare durante la malattia, vedere solchi dove prima non c’erano, abituarsi all’espressione del viso senza sopracciglia, fare i conti con l’incarnato giallo, grigio, spento.
Ma quello che mi fa sentire profondamente a disagio è la retorica della bellezza come ricetta medica. La bellezza come rimedio al cancro. “Farsi belle per sentirsi meglio” non è una frase che ho inventato io ma uno slogan usato molto e in diverse lingue per promuovere copioni di bellezza e femminilità quando si combatte il cancro. Più mi ripeto queste frasi in testa, e meno le capisco. Più me le ripeto in testa, e più, da paziente oncologica, mi sento profondamente offesa e umiliata.
Ma davvero l’unico modo per sentirsi bene quando si è malate di cancro, è quello di essere belle? O è forse che “truccandomi come prima” riesco a conservare l’immagine che la società si aspetta da me? Una donna che sa ancora come vestirsi, come presentarsi, che sa “essere bella nonostante la malattia” (è una frase che mi è stata rivolta, e che all’inizio mi era sembrata un complimento e che ora mi provoca un grande disagio e una grande incazzatura). Una donna che non mostra le occhiaie e il pallore del viso e che mantiene intatta la sua femminilità a colpi di foulard e di matita per gli occhi. Una donna prima che una paziente, insomma. Non ho risposte, ve lo avevo detto. Solo tante domande, e tanti dubbi. Ma credo che sia estremamente difficile, se non impossibile, sottrarsi alle norme di genere, anche quando si è malate.
Volevo parlare di femminilità, sono finita a parlare di tutt’altro, o forse no, non lo so più. Il circo di Moira Orfei in testa è più vivace che mai. Lascerò questi pensieri sedimentarsi tra uno spettacolo di acrobazia equestre e uno di clown. Forse poi ci torneremo su, chissà.
Cose che ho letto, visto, sentito
Un episodio di Amare Parole su “Distopie cyberpunk” che mi ha fatto venire una gran voglia di leggere ancora racconti cozy sci-fi e di scriverci altre duecento puntate. Grazie a Gaia per avermelo girato :)
Ho visto il film Bottoms, e mi ha piacevolmente sorpreso. È sicuramente un film demenziale, ma se si presta un po’ di attenzione, tra i banchi di una qualunque scuola americana emerge una rabbia fatta di ribellione, risate, e solidarietà che sa di liberazione femminile. E poi c’è Ayo Edebiri, e io la amo.
Ho visto “Io sono Mia”, un film su Netflix sulla vita di Mia Martini. Mentre vedevo i testi delle sue (bellissime) canzoni passare in sovrimpressione in TV, ho sentito un grande senso di tristezza. Non ho potuto fare a meno di pensare a questa puntata di e al fatto che vorrei ascoltare canzoni che non parlino sempre d’amore, d’amore eteronormato, d’amore in cui la donna si strugge per l’uomo. “Che giorno triste questo mio / Se oggi tu ti liberi di me / Di me che sono tanto fragile / E senza te mi perderò”. Cantiamo d’altro?
Non lo so mica se giovedì prossimo torno, sono un attimo impegnata. Voi, però, fate sempre ə monellə!
Grazie a Elena Panciera per avermela fatta conoscere.
Userò spesso il femminile sovraesteso in questa puntata, perché parlerò soprattutto di persone socializzate come donne.
Guardatevi questo reel in cui Alok Vaid-Menon discute di costruzione di genere e femminilità con Drew Afualo.
Qui ti mando solo un abbraccio. E ti scrivo di là.
Io ricordo di essere stata contenta di tagliarmi i capelli, ero contenta di ogni sacrificio che mi venisse chiesto: come Jo in Piccole Donne, o nel racconto che avevo letto da piccola, The gift of the magi https://americanenglish.state.gov/files/ae/resource_files/1-the_gift_of_the_magi_0.pdf.
E' un viaggio molto lungo