Un albero di mele
Un costrutto linguistico che ci fa dire le cose che ci piace sentire, storie di incontri e di buchi. Ma soprattutto un promemoria: cerchiamo una mela da gustare, sempre, nonostante tutto.
It's all in my head, baby, I can't breathe
I look in the mirror, what has happened to me?
Parole inverse
C’è una cosa che facciamo, in Sicilia, quando parliamo con le persone che amiamo, soprattutto quando queste sono ancora piccole: le chiamiamo con il nome nostro, quello che ci appartiene, il nome che spiega qual è il tipo di relazione, di parentela, quale legame ci unisce a loro.
Ricordo i lunghi pomeriggi passati a casa di nonna, quando ero piccola, con lei che tra una faccenda e l’altra a un certo punto mi diceva:
Paola, a nonna, quannu finisci i compiti ti mangi na bell’arancia co pani1.
Mangiare un’arancia col pane era la mia merenda preferita. Mangiarla con lei era il mio momento preferito. Lei me lo diceva, chiamandomi nonna, anche se la nonna era lei, io la nipote, e forse me lo diceva per ricordarmelo, non so. Come a dire: sono la tua nonna, mi prendo cura di te, e quando finisci di studiare ti preparo la merenda.
La facciamo spesso, questa cosa qui, noi dell’isola (o almeno della mia parte dell’isola) soprattutto quando parliamo in siciliano, ma ora che ci penso è un costrutto che usiamo anche quando parliamo in italiano:
Paola, mamma, che vuoi mangiare a pranzo?
Sebastiano, zia, ti porto al parco oggi pomeriggio?
Mi è tornata in mente pensando ad altra roba, e così mi sono messa a fare una piccola ricerca online. Devo dire la verità, non è stato semplice: sembra essere una cosa non troppo studiata né compresa (oppure non sono riuscita a fare una ricerca per bene), ma ho trovato un paio di spiegazioni su Linguistics StackExchange che puntano a un costrutto noto in linguistica con il nome di reverse addressing (indirizzamento inverso) o reversed kinship (parentela inversa). L’utente themadprogramer su Reddit si è presə la briga di fare un sondaggio a larga scala (viva l’internet), e ha prodotto una bellissima mappa che mostra in quali paesi del mondo questo tipo di parlato è usato o comune. Vi incollo la mappa qui sotto.
Come si vede dalla mappa, in Italia questo costrutto è stato classificato dal nostro utente Reddit come “recognizable”, cioè “riconoscibile”, come a dire che anche se non tutte le persone che vivono in Italia usano questo modo di esprimersi, non necessariamente suonerà strano alle loro orecchie. Leggo da Reddit: “le persone in Sicilia lo usano, ma in dialetto toscano non si trova da nessuna parte”.
Ci pensavo, a questa cosa qui, perché ultimamente mi chiedo spesso chi siamo in funzione delle persone che abitano le nostre vite. O chi siamo quando queste persone non ci sono più. Forse mia nonna mi chiamava “nonna” perché voleva dire quella parola lì, la voleva pronunciare, quella parola che univocamente sanciva il mio rapporto con lei, la nostra unione, il nostro vincolo sacro. Forse diciamo le cose che ci piace sentire.
Lo avevo scritto tempo fa: c’è stato un tempo della mia vita in cui pensavo che la vita e l’amore non mi avrebbero mai raggiunto. Stavano accadendo da un’altra parte, a un’altra persona, e non avrebbero mai abitato i miei spazi. Io mi limitavo a offrire un servizio alle persone che mi trovavano: permettevo loro di osservarsi nei miei occhi. Il mare, a migliaia di chilometri di distanza, lo immaginavo nero: il blu è solo un riflesso del cielo, mi dicevo. Queste persone che in qualche modo mi trovavano facevano proprio così, come il mare con il cielo: usavano i miei occhi per specchiarsi. Io ascoltavo, ascoltavo, ascoltavo. Immagazzinavo tutto. Loro si nascondevano dentro di me, si depositavano sotto la mia pelle. Ascoltavo le loro storie e memorizzavo le espressioni del loro volto. Poi le ripetevo, come si ripete una poesia, a memoria.
Interesse: alza un sopracciglio, il destro o il sinistro, a seconda delle circostanze. Simpatia: un sorriso lieve, annuisci con delicatezza.
Attrazione: sforzati di arrossire; parecchio difficile, questa qua.
Fascino: inclina un po’ il capo, quarantacinque gradi a sinistra, mostra un po’ di collo.
Un buco nella tasca
Qualche settimana fa cercavo i miei auricolari dentro la tasca del cappotto. Non li ho trovati, ma ho trovato un buco. Un buco nella tasca. Gli auricolari li ho ripescati lungo il ponte sotto casa, sotto la pioggia battente. Dopo un po’, mentre provavo ad asciugare gli auricolari, ho pensato di rammendare il cappotto, ma non ne avevo voglia e soprattutto non so come si fa. Ho pensato, dopo, che forse anche il mio cuore è bucato: un buco nella tasca, e uno nel cuore. Forse più buchi, nel cuore. Quelle persone che mi passavano accanto, quelle le cui espressioni consegnavo alla mia memoria, bucavano il mio cuore, ma io ancora non lo sapevo. Ammaestravano con cura e precisione ogni incisione, ogni taglio, ma io ancora non lo sapevo. La lama dentro, quasi in silenzio, con devota riverenza; dolore e scuse consegnate nello stesso momento. Era tutto progettato, ma io ancora non lo sapevo.
Di me non raccontavo mai. Mai veramente. Da dove venivo, chi ero davvero. Tiravo sempre a indovinare. Sempre in discussione, sempre chi volevo essere, mai chi ero davvero, in quel momento lì. Parlavo sempre senza certezza, come se proprio non dovessi sapere chi ero, e forse non lo sapevo davvero, chi ero, ma forse sapevo da dove venivo. Una cosa era certa - ero brava a sentire. A sentire tutto ero bravissima. Ero brava anche a inventare. Inventavo continuamente leggi della fisica per spiegare al mio cuore che a ogni azione corrisponde una reazione. Non sapevo se uguale e contraria, però. Una legge della natura - mi dicevo - deve esistere. Una legge non scritta che regola i nostri carichi emotivi. Quello che facciamo ci torna indietro - lo sapevo - con il doppio della forza - no, che dico, tre volte tanto. E qui la mia fisica si allontanava dai testi di scuola. Non veniamo punitə per i nostri peccati, pensavo, ma dai nostri peccati. Ora lo so.
Mi limitavo a offrire un servizio, dicevo, certa che la vita, e l’amore, non mi avrebbero mai raggiunta. Mi sbagliavo, per fortuna. O non lo so. Perché poi la vita è arrivata, e io ho iniziato a sedermi nei pensieri altrui. Ero io, per una buona volta, a specchiarmi negli occhi di un’altra persona, a usare il suo nome per parlare di me - vita, amore, gioia, bellezza mia. Dicevo le cose che volevo sentire. Mi accorgevo, per la prima volta davvero, che vivere altro non è che arrampicarsi unə sulla schiena dell’altrə. Usare le nostre schiene come collinette in cui scivolare, aggrappandosi con tutta la forza che abbiamo alle nostre esistenze reciproche. Quelle in cui esistiamo perché siamo amatə, desideratə, vistə. Quelle in cui scegliamo i modi in cui vogliamo chiamarci, a vicenda.
Le esistenze in cui impariamo, pagando spesso prezzi troppo alti, che allenarsi all’amore è allenarsi al rischio. Di perdere. Di perdersi. Di farsi male. Troppo male. Ne vale la pena. Lo dice bene Louise Erdrich:
Life will break you. Nobody can protect you from that, and being alone won't either, for solitude will also break you with its yearning. You have to love. You have to feel. It is the reason you are here on earth. You have to risk your heart. You are here to be swallowed up. And when it happens that you are broken, or betrayed, or left, or hurt, or death brushes too near, let yourself sit by an apple tree and listen to the apples falling all around you in heaps, wasting their sweetness. Tell yourself that you tasted as many as you could.
La vita ti spezzerà. Nessuno può proteggerti da questo, e nemmeno la solitudine lo farà, perché anche la solitudine ti spezzerà con il suo desiderio. Devi amare. Devi sentire. È la ragione per cui sei qui sulla terra. Devi rischiare il tuo cuore. Sei qui per essere inghiottitə. E quando ti capiterà di essere spezzatə, o traditə, o lasciatə, o feritə, o la morte ti sfiorerà da troppo vicino, siediti accanto a un albero di mele e ascolta le mele che cadono a mucchi intorno a te, sprecando la loro dolcezza. Di' a te stessə che ne hai assaggiate tante quante ti è stato possibile.
Da un cuore bucato entra aria, ma non so se è un bene, che il cuore respiri.
Da un cuore bucato entra un po’ di luce, quella che adesso, tanti anni dopo, illumina le stanze che abito, le stanze in cui finalmente parlo con sicurezza, non di chi vorrei essere, ma di chi sono, di chi sono stata, di chi diventerò. Le stesse stanze in cui mia nonna mi ricorda che tra poco facciamo merenda. Quelle in cui guardo mio nipote e gli chiedo:
Sebastiano, zia, ti porto al parco oggi pomeriggio?
Sebastiano, sono io, sono la tua zia, ti porto al parco oggi pomeriggio?
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho letto “Diary of an Oxygen Thief”, e ripensandoci forse non era la lettura più adatta alla mia salute mentale, in questo momento. Brava, Paola, as usual.
Per bilanciare gli umori (ma mica tanto, poi) ho fatto binge-watch della terza stagione di Heartstopper. Solo cuori per questa serie TV che riesce a parlare di roba difficilissima in modo preciso, umano, tondo. Ho amato le scelte musicali, specie i pezzi di Tom Odell2, che a me piace tanto. Ho anche iniziato a leggere l’ultimo volume del fumetto.
Ve lo accennavo nella scorsa puntata, avevo messo in lista la mini serie Smiley, e l’ho vista tutta, mi è piaciuta molto, anche se comprendo il bisogno dello scrittore, Guillem Clua, di allontanarsene e scrivere un epilogo diverso. Ne parlerò, perché è una cosa che mi interessa molto, quella della rappresentazione dell’amore romantico.
Se gustate una mela, fatemelo sapere. Fate ə monellə, vvb <3
Paola, nonna, quando finisci i compiti ti mangi una bella arancia col pane.
La prima frase di questa puntata è da Black Friday.
In sardo, che mi risulti (ma prendimi con le pinze perché purtroppo ne so poco), questa consuetudine linguistica non c'è.
Però dopo aver letto le tue prime righe mi è subito venuto in mente il modo in cui il mio compagno messicano parla con la sua famiglia d'origine: c'è una costante sottolineatura amorevole dei ruoli familiari.
Vediamo se mi so spiegare. Tipo, lui parla con sua sorella e le chiede "Hai parlato con mia madre?" - e tu pensi che abbiano due madri diverse, invece no, parlano della stessa persona. Oppure, ci sono lui, la sorella e la mamma intorno al tavolo, e la sorella dice alla madre: "Quando mio fratello è venuto a trovarmi...", e tu pensi stiano parlando di un altro fratello, invece no, è lo stesso che è seduto al tavolo con loro. Lo so, non c'entra con il reverse addressing, ma ci ho pensato subito; è forse anche quello un modo di rimarcare con amore le persone che popolano le nostre vite e il loro legame con noi?
(E comunque, che sorpresa meravigliosa sono sempre le tue newsletter.)
Ricordo che anche le mie zie e zii in Sicilia usavano questa espressione quand'ero piccolo, e ora che ci penso ricordo solo usi in cui chi riceve l'espressione è piccole: forse anche in questo c'è un gesto di cura e protezione per chi è più fragile.
In ogni caso grazie Paola per avere aperto anche questo spiraglio linguistico. Fate ə monellə è un momento di lettura che è diventato fondamentale per me.