Sweet Darkness
Una puntata che non doveva vedere la luce. E invece eccola qui. Con il mio dolore cronico, e la metà di un vocabolario che non trovo più. Un po' di buio.
Time to go into the dark where the night has eyes to recognize its own.
Eccomi.
Oggi la newsletter non doveva uscire, non volevo farla uscire. Non volevo scriverla e non volevo nemmeno immaginarla. Che succede se questo giovedì la newsletter non esce? - ho chiesto su Instagram. Un po’ di persone mi hanno detto che non succede proprio niente, che il mondo continua a girare; altre mi hanno chiesto qualcosa del tipo “perché non vuoi scrivere? che hai, che succede?” Una domanda forse ancora più rilevante: “come stai al pensiero di non farla uscire?”.
L’idea mi devasta, rispondo con sicurezza. Mi devasta la possibilità di venire meno a un piano, un progetto, un’intenzione, quasi una promessa. Un impegno con me stessa, prima ancora che con voi che mi leggete. La scrittura mi ha salvata, questo è successo più di una volta e l’ho detto più di una volta. E allora forse mi ha spaventata a morte l’idea di rinunciarvi, di mollarla, di non attuarla, perché questa rinuncia potrebbe significare che mi trovo, finalmente e irrimediabilmente, al di là della salvezza. Non posso permettermelo, mi sono detta.
Oggi lei mi ha improvvisamente1 parlato di desideri e volontà, di quella cosa composta del fare sempre del nostro meglio, indipendentemente dai risultati e da quello che succede nelle nostre vite. E questa cosa qui, unita a una poesia che mi è tornata in mente ieri sera, mentre un po’ piangevo sul divano, mi hanno dato la forza (non so se è forza, forse è energia, spinta, moto, non so), la forza, dicevo, di mettere assieme qualche pensiero. E di condividerlo con voi, come provo a fare ormai da più di un anno.
Mi sono detta che spesso sono le cose che non riesco a dire e che faccio fatica a pronunciare quelle che poi si rivelano più dense di significato, più importanti, se voglio usare questa parola e non sono sicura di volerla usare. Mi sono detta che è soprattutto quando non voglio scrivere, che mi devo sforzare di farlo - e allora vedi che forse la forza, un pochino, c’entra?
Sono giornate in cui fatico enormemente a essere amorevole con me stessa, a usarmi parole gentili, a mostrarmi compassione, ad abbracciarmi. Passo molto tempo a insultare il mio cervello, a condannare la mia sensibilità, a guardare il soffitto, stesa a letto, la sera, con il corpo stanco e dolorante, a chiedermi:
perché io? perché a me? perché così? perché in questi toni, con questi colori, con queste intensità?
Vorrei provare di meno, sentire di meno, amare (sì, amare) di meno. Me lo dico a voce bassa, quasi provando vergogna per un desiderio che si scontra contro la testardaggine della mia vita. Un desiderio che fa a pugni con la mia sopravvivenza, con questo corpo che ancora respira e ancora vuole e ancora brama. Così pensavo che non avrei scritto, perché ogni parola che mi risuona in mente in questo momento sa di buio e di ombre e di rifiuto. Non conosco altro. Il mio vocabolario si è dimezzato. È rimasta la parte in ombra che uso per parlare di questa mente che è costantemente impegnata ad auto sabotarsi. Parole per parlare del mio corpo, di quando lo trascino fuori dal letto e lo porto in giro, pesante e lento, inefficiente e incapace. Vedi, solo insulti. C’è un dolore acuto che mi porto dietro, qualunque cosa faccia e ovunque vada. Non riesco a liberarmene. Comincio a pensare che si tratti di un dolore cronico. Inizia dalla mia spalla destra, e si irradia nel mio braccio, mi punge fortissimo sul seno, intorno all’area ascellare, scende un po’ verso lo sterno. Non se ne va mai. Mai. Lo sento di meno quando mi sdraio sul mio fianco sinistro, mi abbraccio un cuscino al petto, a supportarmi il braccio destro. Lo sento di meno sotto la doccia, nei primi secondi sotto l’acqua calda, ma poi l’effetto benefico passa quasi subito. Lo sento di più, molto di più, quando devo lavorare al computer, quando mi siedo sull’autobus per andare a lavoro, quando cammino, faccio cose, vivo.
Solo una volta sono riuscita a metterlo a tacere, a portare la manopola del volume quasi a zero: ero in casetta a fare un corso di focus sul corpo (sempre lui, sempre e solo lui). Durante un esercizio di body scan, in cui dovevo portare l’attenzione della mia mente su alcune parti del mio corpo, mi sono improvvisamente detta - cazzo, sta succedendo. È successo davvero. È durato poco, pochissimo, ma giuro che il dolore è sparito. Il mio seno destro era come il sinistro, come prima, prima della malattia e prima dell’intervento, o forse era ancora nuovo, diverso, ma non faceva più male. Una manciata di secondi, niente di più, ma è stato come gustare il paradiso, giuro. Non sono più riuscita a replicare quello stato lì. Tasso di riproducibilità pari allo 0%.
Fatico tantissimo soprattutto quando sono in ufficio, e in alcuni momenti mi sforzo di pensare e di dirmi - respira, ti prego respira, posa lo sguardo su quel dolore lì, mostragli calma e compassione, pazienza e tenerezza, forse se ne andrà per un po’. Non funziona mai. Non importa quanto mi sforzi, non funziona. Mi arrabbio così tanto e mi pesa così tanto e tutto fa male così tanto che piuttosto vorrei dare testate al tavolo, alla scrivania, gettare qualcosa dalla finestra, urlare.
Il dolore cronico è un tipo di dolore che persiste o recidiva per un periodo superiore a 3 mesi, persiste per più di 1 mese dopo la risoluzione di un danno tissutale acuto o si associa a una lesione che non guarisce.
Un danno tissutale acuto. Ci credo.
Andrà meglio, mi ha detto il medico. Ma ci vorrà ancora molto tempo, un anno, forse due, non ne siamo sicuri. Ci credo. Che alternativa ho?
Questo dolore mi debilita, e non perché limita ciò che posso o non posso fare - o almeno non solo per questo, e sì, non vedo l'ora di tornare in sella alla mia bicicletta e in questo momento questa cosa non posso permettermi nemmeno di sognarla - è che è proprio dentro la mia testa. Risiede lì, nei miei pensieri, in quelli che non posso controllare, non riesco a controllare, e così si fa strada anche nel mio umore, e nelle parole che scelgo, e non solo nel mio braccio e nei miei dannati muscoli e nei tessuti e nella carne, no. È un'impronta digitale nella mia testa, una firma unica e chiara che non lascia dubbi: questa merda qui è successa a me, e ora devo essere in grado di affrontarne le conseguenze, questa maledetta aftermath delle cose, di tutte le cose, di ogni diamine di cosa. Vorrei sbattere la testa contro il muro. È anche a causa sua, di questo dolore cronico, che sto lentamente dimenticando l'altra metà del vocabolario. Perché come diavolo si fa a godere del riposo, dell'amore, dell'amicizia, dello sport, di qualsiasi cosa, davvero, come diamine si fa quando un dolore come questo ti squarcia, costantemente, perennemente, ti rompe a metà, e scava giù e giù e sempre più a fondo? Come si fa?
Sono rappezzata. Rattoppata. Aggiustata alla meno peggio, forse. Quella roba lì delle crepe, da cui entra la luce e bla bla bla. Che stronzate, mi dico. Frasi a effetto, ha ragione lei.
Stavo meglio senza crepe, stavo meglio senza dolore, stavo meglio intera.
Ieri ho passato un po’ di tempo a guardare la mia bacheca, quella su cui muovo lentamente il mio indice destro, e passo in rassegna poesie, frasi, canzoni. Una vita di parole, così tante parole. Ci ho trovato sopra, appiccicata a una foto di un solstizio d’inverno (ed è tutto assolutamente anacronistico dentro la mia mente) “Sweet Darkness” di David Whyte:
When your eyes are tired
the world is tired also.
When your vision has gone,
no part of the world can find you.
Time to go into the dark
where the night has eyes
to recognize its own.
There you can be sure
you are not beyond love.
The dark will be your home
tonight.
The night will give you a horizon
further than you can see.
You must learn one thing.
The world was made to be free in.
Give up all the other worlds
except the one to which you belong.
Sometimes it takes darkness and the sweet
confinement of your aloneness
to learn
anything or anyone
that does not bring you alive
is too small for you2.
A volte è il buio a darci gli orizzonti che cerchiamo, quelli di cui non sappiamo nemmeno di aver bisogno.
Se i tuoi occhi sono stanchi, anche il mondo è stanco.
Sono stanca, ma non mi sono persa, semplicemente non so (ancora) dove sto andando. Mi trovo su questa lunga e ampia strada liminale verso il posto che è mio, che sarà mio, verso il mondo che mi appartiene, l’unico per cui sono nata e vivo. Questa lunga strada che parte da chi sono stata e dove sono stata e procede verso chi sto diventando e dove sto andando. La lunga strada liminale della guarigione, quella che porta in un posto che non conosco ancora, ma dove sono sicura di non essere più rappezzata, e dove mi accoglie, finalmente, l’interezza.
Cose che ho letto, visto, sentito
- .
Tom Odell ha scritto questa roba qui, l’ha scritta per me, per noi: “It hurts right now but it won't forever / We're gonna get through it together / You're doing your best / And what more can you do?”3
Il sesto episodio del diario a fumetti di
è out: leggetelo.
A presto, e Fate ə monellə!
Improvvisamente? Non sono sicura. A volte penso sappia esattamente che cosa mi deve dire.
Quando i tuoi occhi sono stanchi anche il mondo è stanco. Quando la tua visione è andata via, nessuna parte del mondo può trovarti. È tempo di andare nel buio dove la notte ha occhi per riconoscere i propri. Lì si può essere sicuri di non essere al di là dell'amore. Il buio sarà la tua casa stanotte. La notte ti darà un orizzonte più lontano di quanto tu possa vedere. Devi imparare una cosa. Il mondo è stato creato per essere liberi. Rinuncia a tutti gli altri mondi tranne quello a cui appartieni. A volte ci vuole l'oscurità e il dolce confino della tua solitudine per imparare che qualsiasi cosa o persona che non ti fa vivere è troppo piccolo per te.
Fa male adesso ma non farà male per sempre / Ce la faremo assieme / Stai facendo del tuo meglio / E cos’altro puoi fare di più?
Che fatica ho percepito da queste tue parole. Ma anche che forza. Lasciarsi guidare dal desiderio e dalla volontà, in attesa di un futuro incerto. Ci vuole una bella dose di fede, anche. Ti mando un abbraccio, e presto te lo do dal vivo, e non vedo l'ora.
Abbracciarsi, quanto hai ragione. È verissimo e lo facciamo così poco spesso. Mi è tornato in mente un discorso di ringraziamento di uno scrittore svedese che ora non ricordo. Era molto divertente. Diceva che lui è abituato a lavorare i team con il suo cervello. Lavorano da molto tempo a un progetto chiamato “Vita”, per ora senza alcun successo. L’idea che siamo molteplici non è nuova ma quella che bisognerebbe parlare a queste nostre emanazioni andrebbe esplorata molto di più. Poi il tuo dolore non posso neanche immaginarlo, non considerando anche che sono un uomo e che mi lamento dalla puntura di zanzara in su. Un abbraccio.