Nastri colorati
Ottobre, il mese della prevenzione del cancro al seno, i fiocchetti rosa, la mercificazione della mia malattia, e il pinkwashing che non vorrei mai più vedere.
Giuro che io ci provo, a scrivere di roba che non c’entri con il cancro, ma poi AIRC decide di mandare un’email - il giorno prima dell’uscita di questa puntata - con un soggetto che recita “È il cancro più frequente” e l’apertura che dice:
Ciao Paola Chiara,
ottobre è il mese della prevenzione dei tumori femminili, per questo abbiamo deciso di inviarti questo approfondimento sul tumore al seno.
E penso - io so già tutto, però dai leggo lo stesso. L’email continua così:
Noi di AIRC stiamo massimizzando gli sforzi per concentrarci sulle forme più aggressive e ancora meno curabili del cancro al seno che costituiscono il 12% delle diagnosi totali. Tra queste ci sono il tumore al seno triplo negativo, che colpisce soprattutto in giovane età e che, purtroppo, risponde solo in parte ai trattamenti attualmente disponibili.
Guarda là, il mio tumore, il mio cancro. Quest’email parla di me. E lo fa con una precisione che mi impaurisce. Essere oneste richiede un sacco di fatica.
L’email è ovviamente una call to action per supportare economicamente AIRC attraverso una donazione, e sostenere così progetti di ricerca importanti, ma anche il lavoro di divulgazione scientifica e sensibilizzazione che l’associazione porta avanti.
Ottobre è un mese speciale, per me. E oggi è (finalmente?) finito. Il calendario segna “un anno dopo”, ma in verità è un mese difficile soprattutto perché tanta roba intorno a me mi ricorda che sono una paziente oncologica, una diagnosi, una prognosi, una malattia, un piano terapeutico, un soggetto da osservare, un’immensa collezione di dati e di statistiche. La mia storia racchiusa in un’email che probabilmente hanno ricevuto centinaia di migliaia di persone. Quando è arrivato ottobre il mio ospedale ha deciso di appendere una quantità smisurata di palloncini a forma di fiocco rosa ovunque. Io non ho messo bene a fuoco come questa cosa mi faccia stare. Mi chiedo se da domani i palloncini andranno via, se a novembre la causa si sarà fatta meno urgente, meno importante. Mi rendo conto di dire stronzate.
Dicevo, non so come mi fa sentire, vedere tutti questi palloncini rosa intorno. Ho tante persone vicine che hanno comprato medagliette e fiocchetti rosa, in questo anno della mia malattia. Ne esistono diversi tipi, lui ne ha comprato uno bellissimo con delle tette disegnate sopra. Io vorrei dirgli che il cancro al seno non riguarda solo il seno, ma poi non ho voglia. Lui continua a comprarne, e io glielo spiego, che il mio stato di salute non dipende da quanti nastri compra e da quanti ne appende in giro per casa. Non gliene importa un tubo. Io continuo a non capire come mi fa stare, la cosa.
Credo mi affascini l’uso di oggetti come simbolo per una lotta comune, un ideale, un progetto, uno scopo. Non so se sia anche un modo per identificarsi. O un modo per dirsi, a vicenda, porto addosso le ferite di questa storia qui, le cicatrici, come medaglie d’onore. Continuo a dire stronzate, lo so.
Ho fatto una breve ricerca sul web e ho scoperto un po’ di roba. Innanzitutto, l’uso di nastri colorati per mostrare il proprio sostegno a una causa o un problema sembra risalire a tantissimi anni fa, e una pagina Wikipedia in italiano li chiama “nastri della consapevolezza”. Sempre su Wikipedia, stavolta su una pagina in inglese, si trova un elenco, seppur parziale, di tutti i nastri della consapevolezza che a oggi si usano per mostrare supporto a diverse cause: neri, rossi, rosa, arancioni, tonalità del verde, tonalità del blu, sfumature di viola, lilla.
Il primo nastro colorato a essere stato usato per veicolare un messaggio è stato quello giallo. Nastri gialli legati intorno ad alberi per simboleggiare l'attesa di un amore partito. Una canzone vecchissima, scritta nel 1917 da George A. Norton, si chiama proprio “Around Her Neck She Wore A Yellow Ribbon”- For Her Lover Who Is Far, Far Away, che significa “portava un nastro giallo intorno al collo - per il suo innamorato che è assai, assai lontano”. I nastri gialli sono stati poi usati, in tempi molto più recenti, come simbolo di campagne contro ostaggi americani catturati in Iran, per poi trasformarsi ancora in un simbolo di supporto nei confronti dei soldati impegnati nella guerra del Golfo. Fu proprio un’altra canzone - Tie a Yellow Ribbon Round the Ole Oak Tree, cioè “legate un nastro giallo intorno alla vecchia quercia”, a ispirare Penelope Laingen a legare un nastro giallo intorno alla quercia bianca del suo giardino a Bethesda. Era il novembre 1979 e suo marito, L. Bruce Laingen, era il funzionario di grado più elevato tra le 52 persone tenute in ostaggio in Iran dopo che alcuni studenti militanti avevano invaso l'ambasciata americana. Penelope Laingen non sapeva che avrebbe dato vita a un movimento nazionale, mentre diceva ai giornalisti: “Uno di questi giorni, Bruce scioglierà quel nastro giallo. Rimarrà lì finché non lo farà.”.
Dopo il nastro giallo arriva quello rosso, quello legato all’impegno del collettivo di artistə e attivistə di Visual AIDS, che mira a coinvolgere l’opinione pubblica nella lotta contro l’HIV. Nel 1991, poi, la Susan G. Komen Cancer Foundation decide di distribuire nastri rosa alle persone che partecipano alla gara di New York “Race for the Cure”. Nel frattempo, una donna di nome Charlotte Haley, sopravvissuta a un cancro al seno, inizia a realizzare a mano, nel salotto di casa sua, nastri color pesca. Realizza pacchetti di cinque nastri e a ciascuno allega una cartolina che invita a sensibilizzare le persone sulla prevenzione del cancro, indossando proprio il nastro color pesca.
La svolta finale sulla questione nastri e fiocchi per la lotta contro il cancro al seno arriva nel 1992, quando Alexandra Penney, caporedattrice della rivista Self, ed Evelyn Lauder, vicepresidente di Estée Lauder nonché sopravvissuta in prima persona a un tumore al seno, pensando a una campagna per il mese di prevenzione hanno l’idea di creare un nastro che possa arrivare in tutti gli Stati Uniti attraverso la grande azienda di cosmetici di Lauder. Lauder prova allora a collaborare con Haley, ma Haley rifiuta perché ritiene il suo approccio troppo commerciale, così Lauder contatta il proprio team legale, e decide di cambiare sfumatura cromatica, mantenendo lo spunto di partenza di Haley: il nastro diventa così color rosa pastello. Viene ricreato, inoltre, con un design “incompleto”, cioè non ben stretto come sarebbe necessario ma lasciato aperto, per indicare la mancanza di fondi, di conoscenze, e la strada ancora da compiere prima di poter raggiungere l’obiettivo finale: curare ogni donna, ogni cancro.
Mercificare il cancro
Ora, usare simboli per dire cose che non sempre riusciamo a dire mi sembra una cosa intelligente. Usarli per dire alle persone “I care, mi importa, ti vedo, ci sono” mi sembra molto amabile. Ma l’uso spropositato di nastri della consapevolezza, senza, per l’appunto, consapevolezza, non mi pare cosa buona e giusta. E non parlo dei palloncini del mio ospedale, ovviamente, o forse sì, non lo so, ma parlo soprattutto della roba che vedo in televisione, al supermercato, dentro le riviste di bellezza.
Ne ha parlato molto bene Maëlle Sigonneau nel suo podcast Im/Patiente e nel libro “Im/Paziente. Un’esplorazione femminista del cancro al seno” che ho letto tanti mesi fa. Ne hanno parlato molto altre attiviste e donne con il cancro al seno, quando si sono rese conto, ad esempio, che sia Komen che Lauder hanno fatto, e continuano a fare, parecchio pinkwashing, una parola inglese che fondamentalmente significa questo:
Prendere il logo, quel fiocchetto rosa incompleto, e fare un copia-incolla spropositato su tantissima merce: rossetti, profumi, candele, felpe, maglie, creme viso, e chi più ne ha più ne metta. A volte, significa persino prendere il fiocchetto rosa e incollarlo su prodotti che sappiamo essere dannosi, in generale, o che sappiamo avere persino un legame diretto con le cause del cancro, uno tra tutti: l’alcool.
È stato inoltre mostrato che molto spesso tracciare i fondi stanziati per la ricerca sul cancro attraverso questa mera mercificazione della malattia, è praticamente impossibile. A me pare proprio che il cancro venga sfruttato in nome del profitto, portando forse sì un po’ di consapevolezza, senza però offrire alcuna informazione utile sulla malattia che aiuti effettivamente a educare le persone.
Ecco perché non capisco bene come mi fanno stare, i palloncini in ospedale, ma soprattutto tutte le immagini rosa di ottobre. Forse mentre scrivo mi rendo conto che mi fanno stare male, scomoda, in imbarazzo. Capisco perché è nato il nastro rosa, anzi, capisco soprattutto perché è nato quello color pesca, e capisco perché lui ne compra a palate, ma ridurre la mia malattia a una gradazione di colore e un insieme di fiocchi è una cosa che non riesco ad accettare.
La campagna Think Before You Pink (in italiano qualcosa tipo: pensa, prima di colorare di rosa - anche se la traduzione non rende) è stata lanciata nel 2002 proprio in risposta alla crescente preoccupazione per il numero di prodotti con il nastro rosa presenti sul mercato. Questa campagna chiede una maggiore trasparenza e responsabilità da parte delle aziende che partecipano alla raccolta di fondi per il cancro al seno e incoraggia i consumatori e le consumatrici a porsi domande critiche sulle promozioni con il nastro rosa. Quando comprate un prodotto - qualunque esso sia - e ci trovate sopra un fiocchetto, e una scritta del tipo: “per la sensibilizzazione sul cancro al seno” fatevi due domande, e chiedetevi se davvero quel prodotto sta aiutando voi, a saperne di più, e noi, pazienti oncologiche, a stare meglio, in un modo qualunque.
Probabilmente la risposta sarà no.
Sarà che ottobre è stato pesante, sarà che sono stufa, in generale e dei nastri colorati, sarà quel che sarà, ma vi lascio un ultimo pensiero, a riguardo, quello dell’attore e comico George Carlin, in un video su YouTube, di cui vi riporto le parole:
and haven’t we gone a little overboard with these colored ribbons for different causes? every cause has its own color, red for AIDS, blue for child abuse, pink for breast cancer, green for the rain forest, purple for urban violence. I got a brown one, you know what it means? “eat shit, motherfucker”
e non abbiamo un po' esagerato con questi nastri colorati per cause diverse? Ogni causa ha il suo colore, il rosso per l'AIDS, il blu per gli abusi sui minori, il rosa per il cancro al seno, il verde per la foresta pluviale, il viola per la violenza urbana. Io ne ho uno marrone, sapete cosa significa? "eat shit, motherfucker"
E l’ultima frase non ve la traduco, ma sento di dirla a chiunque si appropri delle nostre storie, a chi ne fa merce da vendere, e nastri da colorare.
Cose che ho letto, visto, sentito
Mi è piaciuto molto questo numero di lancio di “Fare cura”, uno “spazio bisettimanale per rispondere al desiderio di stare nel nostro tempo, mettendo nei nostri corpi ciò che pensiamo, speriamo e in cui crediamo.” Curiosa di leggere le prossime puntate.
Sto guardando Envidiosa, sotto suggerimento di Elena Canovi. Ci ha fatto anche un post su IG, andatelo a vedere ;-) I miei pensieri seguiranno.
Amo follemente
. L’ultimo numero, When I say I love you, mi ha fatto piangere (ma io sono frignona, lo so!). “i’m teary eyed also and i hate that. i hate that it always feels like im ranting to you, pouring out my anger or sadness, i promise this isn’t who i am, i wish you’d meet me on my good days, i promise i’m happy.1”
A presto, Fate ə monellə!
Anche io ho le lacrime agli occhi e lo odio. Odio il fatto che mi sembra sempre di farneticare con te, di sfogare la mia rabbia o la mia tristezza, ti assicuro che non sono così, vorrei che mi conoscessi nei miei giorni migliori, ti assicuro che sono felice.
Queste parole hanno tutti i colori e non hanno bisogno di alcun fiocco, grazie per averle condivise.