L'informazione è potere (?)
La fine della mia chemioterapia, un nuovo, sconosciuto sentiero da battere, e gli studi sul cancro: perché c'è bisogno di rivoluzionare il modo in cui facciamo ricerca.
Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves.
Ho finito la chemioterapia, quella aggiuntiva che dovrebbe aiutare a ridurre le mie probabilità di recidiva. Ieri sera, 14 gennaio 2025, ho preso le ultime pillole, la capecitabine, e ho scattato l’ultima fotografia. 224 fotografie di pillole, 112 giorni di pillole, e ora non so che farmene di quest’opera d’arte, così come non so che farmene di queste giornate.
Mi sento come una foglia secca che delicatamente lascia un albero d’autunno, alla chetichella, quasi in punta di piedi. Non appartengo più a nessuno spazio, non più malata, non ancora guarita. Sopravvissuta, ormai lo sappiamo, lo so io e lo sapete voi. Sperduta in mezzo al bosco, come cappuccetto rosso, ma il mio sentiero termina qui, e so che adesso tocca a me tracciarne uno nuovo. Forse solo il lupo può riportarmi a casa. Aiutarmi a raccogliere i pezzi sparsi qua e là, comporre un puzzle che non so esattamente che forma abbia. Cerco le istruzioni e non le trovo da nessuna parte. Sto per partire per un lungo viaggio, ma non ho fatto alcun preparativo. Uno direbbe - osserva come sei caduta dall’albero, e capisci da che parte soffia il vento, no? Mi sa che non è così semplice, no.
Potrei tornare a studiare, mi dico. Provare a capire che probabilità di guarigione ho, che numeretto potrei attribuire a questo corpo che resiste, a questa foglia secca che certamente cambierà colore, ma non sa come né quando, e se ne sta in attesa. Il mio medico ogni tanto parla di numeri, ma mi dice anche che spesso lasciano il tempo che trovano, che questa è una malattia così personale, così diversa, così eterogenea.
Lo sapevo dall’inizio.
Potrei tornare a studiare, dicevo. Ho studiato tanto nelle prime settimane della mia diagnosi. Carcinoma mammario, tumore al seno, triplo negativo, invasivo, aggressivo. Tasso di proliferazione. Compromissione dei linfonodi. Centimetri. Millimetri. Metastasi. Alcune cose le sapevo già, avendo fatto un dottorato di ricerca in bioinformatica sul processo di migrazione cellulare, con focus sulla transizione epitelio-mesenchimale, che è un nome brutto per dire che una cellula tumorale riesce a entrare nel tessuto connettivo. Una volta che lo fa, non è più riconosciuta come estranea, acquista mobilità, e diviene persino più resistente all’apoptosi, ovvero alla morte programmata, che è il motivo per cui uccidere cellule tumorali in stato mesenchimale è difficile, ma possibile.
Possibile grazie alla scienza. Possibile grazie alla ricerca.
Ho studiato tanto nelle prime settimane, dicevo. In ospedale mi hanno dato un libro, un libro tutto rosa ahimè - perché il cancro al seno è rosa, si sa - e io l’ho divorato in un pomeriggio (in olandese, per giunta!).
Poi mi sono messa a cercare articoli scientifici per capire se il protocollo in ospedale fosse il migliore, per me. Mio marito mi diceva che sicuramente lo era, e io in fondo lo sapevo, ma volevo conferme, seconde opinioni, terze opinioni. A volte il sapere è maledetto, ora lo so, e il mio oncologo una volta scherzando mi disse - signora, lei è una persona molto intelligente, ma non si metta a fare ricerche su Google, o su PubMed1, la prego, accrescerà solamente la sua ansia.
E aveva ragione - anche se io non ero sicura - e aveva ragione per una serie di motivi.
Il primo: una questione di fiducia. Quando una persona ti prende in cura, ti devi fidare, se non lo fai credo che diventi tutto davvero assolutamente insostenibile. Dal momento della diagnosi si scrive un patto, talora taciuto, un patto che include due parti, tu paziente, e lui, il tuo medico (il mio è un uomo). Ed è un patto che dice: mi fido. Mi fido che tu, medico, hai a cuore la mia salute, fisica e mentale, e mi fido che mi renderai partecipe a ogni passo, con coscienza, etica, responsabilità. E tu, medico, ti fidi che io ci creda, il più possibile. Che segua con cura le prescrizioni cliniche, che venga in ospedale quando sono attesa, che faccia di tutto per prendermi cura di me, con le energie e le risorse che la malattia mi lascia. Ci fidiamo. E fidandoci l’uno dell’altra procediamo assieme, il terreno a volte battuto e a volte ignoto, ma, come ho detto più volte, siamo foglie in bilico sullo stesso ramo. (E ora devo imparare come si sta, senza quel ramo).
Il secondo motivo: leggere di storie che parlano della tua malattia può essere utile, ma solo quando sei pronta. Quando ho ricevuto la diagnosi, pensavo che sapere tutto della malattia mi avrebbe aiutata a viverla “meglio” (qualunque cosa questo meglio significhi). E in parte è stato così. Conoscere la medicina, conoscere la scienza, è stata un’arma potente per costruire la fiducia di cui parlavo prima. Ma ci ho messo un po’ per aprirmi alle storie altrui: a un mese dalla diagnosi ho detto pubblicamente di stare male, e con “pubblicamente” intendo che ho scritto un post su Instagram:
Scelsi il nastro rosa, e questo la dice lunga sulle cose che ho imparato nell’ultimo anno della mia vita. Seguendo lo spirito di condivisione che ha da sempre contraddistinto la mia vita personale e professionale, a ogni modo, dissi al mondo (ovvero a una manciata di follower su una piattaforma social): ho il cancro. Ma non ero ancora pronta all’altra parte dell’equazione, cioè all’ascolto. Rifuggivo storie di cancro online perché avevo paura fossero finite male (qualunque cosa significhi male, in questo contesto). Non sapevo ancora che tipo di registro potesse farmi male, che linguaggio volevo adoperare per me stessa in quanto paziente oncologica. Era troppo presto, e il mio medico in qualche modo mi ha aiutato a capire questa cosa qui. Ci sono voluti mesi per mettermi all’ascolto, per accogliere, per filtrare, anche, perché è giusto farlo quando la tua salute mentale è in ballo.
Il terzo motivo: non sarei riuscita a leggere la maggior parte degli articoli scientifici. E non perché troppo difficili da comprendere, semplicemente perché non sono accessibili. Avete letto bene: nemmeno gli articoli che parlano di una cosa così grande e critica come il cancro sono accessibili e gratuiti sul web. Alcuni lo sono, ovviamente, ma non tutti. Volevo provare ad assegnare un numeretto a questa cosa, così mi sono affidata a uno strumento potentissimo che si chiama OpenAlex, un’enorme libreria di lavori scientifici, assolutamente gratuita e open, che prende il nome dall’antica Biblioteca reale di Alessandria. OpenAlex mette a disposizione circa 250 milioni di opere accademiche provenienti da 250.000 fonti, con una copertura extra per le discipline umanistiche, lingue che non siano l’inglese (alleluia!) e il Sud del mondo. Insomma, sono andata nella pagina di ricerca di OpenAlex e ho filtrato solo gli articoli (escludendo quindi capitoli di libri, dati, etc.) che parlano di Breast Cancer Treatment Studies, cioè di studi che riportino cure per il cancro a seno. Ecco cosa ho trovato:

Più di settantamila articoli pubblicati dal 2001 a oggi, solo il 31.4% di questi sono open access, possono cioè essere letti da chiunque, anche da persone che non hanno affiliazioni accademiche e quindi senza abbonamenti alle prestigiose (!) riviste scientifiche. Ritornerò sicuramente su questo argomento, e sulla necessità di aprire la ricerca, come scrive
nell’ultimo numero della sua newsletter:Sul piano tecnico, a una buona parte di queste criticità risponde il movimento Open Science — un movimento incentrato sulla trasparenza del processo di ricerca nel suo insieme, che propone diverse prassi di pre-registrazione e dichiarazione di metodi, materiali e poi pubblicazione aperta e accessibile di dati, codice e risultati, volte a ridurre le pratiche di ricerca discutibili e a salvaguardare l’integrità della ricerca.
Per il momento mi preme solo ricordare, ricordarci, che questi articoli sono prodotti, nella maggior parte dei casi, con i soldi delle nostre tasse. E che detengono informazioni preziose non solo per chi la ricerca la fa, ma anche per chi partecipa a uno studio - hi, it’s me!
Come disse Aaron Swartz in apertura del suo manifesto:
L'informazione è potere. Ma come ogni potere, c'è chi vuole tenerlo per sé.
E invece noi condividiamo, apriamo scatole, doniamo tutto a fattor comune.
Alla faccia loro.
Cose che ho letto, visto, sentito
- ha scritto un pezzo importantissimo sulla mancanza di dati nella sanità pubblica, e sulle conseguenze per noi pazienti e per chi fa ricerca. Assolutamente da leggere, eccolo qui.
Sono sempre mossa dalla generosità delle persone che scrivono saggi per
. L’ultimo numero mi ha colpita profondamente.Sto guardando Schitt's Creek, e mi sta piacendo tantissimo!
Grazie per essere arrivatə fino a qui. Fate ə monellə! A presto <3