Le cose che non si vedono
Incarnare, «prendere carne, assumere corpo umano». Come sarebbe bello, indossare il cuore come si indossa una spilla.
Yeah, we are proof that the heart is a risky fuel to burn.
“Pensavo da giorni ascoltandoti e ora leggendo qui che certe rivoluzioni del pensiero e poi della vita avvengono solo quando le incarniamo, letteralmente, cioè quando il corpo è coinvolto.”
Questo è uno dei commenti che ho ricevuto sotto l’ultima puntata di questa newsletter, che è stata letta, condivisa, amata e forse odiata. Io con voi, non temete. Questo forse è il commento che racchiude un po’ tutti gli altri, quel verbo lì, incarnare, mi pare abbia forza, mi pare sia in grado di dipingere un sentimento, di renderlo tridimensionale, ne vedo gli avvallamenti e le risalite, le curve, lo sforzo. Incarnare. Un verbo che ci portiamo dietro dal latino ecclesiastico, così mi dice internet, dai tempi di quella storia del dio grande che prende carne, assume corpo, diventa essere umano.
Questa storia della carne è complessa, ci faccio i conti senza possibilità di scelta da ormai troppo tempo. Non posso dimenticarmene. Ho provato a riflettere su quello che ha significato per me tornare al lavoro, ci ho riflettuto ancora e ancora e ancora. Ho pianto molto. Ho ascoltato le vostre esperienze, letto i vostri messaggi, ne sono uscita un po’ più confusa, se possibile, ma sempre più convinta del fatto che il personale può essere politico e può essere collettivo. Ho pensato tantissime cose, alcune delle quali ho raccontato a voce alta, altre invece le ho riposte in un angolino, un angolino del mio cuore dove nascondo le cose di cui mi vergogno o quelle di cui sono gelosa, quelle che sono solo mie. È un angolo in penombra dove spillo appunti su appunti, rimuginando e rimacinando, masticando senza sosta fogli sgualciti, note a margine con matite colorate che sanno di caos e sregolatezza. Ho perso la legenda e non so più come decifrarle.
È in quest’angolo del cuore che ho nascosto un pensiero, un pensiero brutto, macchiato di vergogna. Chissà se voglio dare parole a questo pensiero, qua dentro. In questo spazio qui che cura ma non protegge e non conosce tenerezza, o forse la conosce e la schiva, ha imparato a camminarle intorno. Questo spazio è maremoto, piuttosto, se maremoto serve a distruggere e a ricostruire.
Mi sono chiesta come sarebbe stato, tornare al lavoro ma anche riprendere una serie di attività che hanno a che fare con la vita prima della malattia e al di là della malattia, mi sono chiesta - dicevo - come sarebbe stato tornare a fare quelle cose lì, se il mio corpo avesse mostrato segni evidenti degli ultimi diciotto mesi della mia vita. All’occhio esterno, intendo. Come sarebbe stato, (ri)tornare, incarnando tutto in modo univoco, chiaro, preciso, visibile?
Mi sono chiesta come sarebbe stato, come sarebbe, ancora, se fossi tornata senza una gamba, senza un braccio, senza un occhio. Come avrebbero reagito le persone intorno a me. Come sarebbero cambiati l’ambiente, l’ufficio, le luci, gli odori e i rumori. Come sarebbe stato se fossi arrivata portandomi dietro un corpo nuovo, un corpo diverso, e non soltanto questi capelli cortissimi e ricci e folti e sani. Un taglio nuovo per cui continuo a ricevere complimenti e sorrisi. Non so che farmene. Mi fanno piacere. Mi sento impazzire. Un corpo nuovo, una carne nuova. Non solo nella sua funzione ma anche nella sua forma. Nella sua disabilità, forse. Nei suoi confini tratteggiati, nelle sue mancanze, nelle sue pienezze ritrovate, diverse, uniche. Nessuno si sarebbe mai più dimenticato di quello che mi è successo. Di quello che è successo al mio corpo, a noi. Ho provato a immaginare come sarebbe stato, emergere dal tunnel della malattia portando addosso un segno indelebile, visibile. Un ricordo vivo e sanguinante. Un pin, una spilla sul petto. Una cosa che dica:
adesso sono altra, diversa da prima, sì, ma anche diversa da voi
Imbarazzata, poi, sono corsa a nasconderlo in quell’angolino in penombra.
Dopo un sacco di lacrime l’ho portato fuori, alla luce. L’ho steso al sole come stendeva le lenzuola mia nonna sul terrazzo in Sicilia. Bianche, accecanti, profumate, lisce. Ho lasciato che esistesse, l’ho accarezzato con riverenza e vergogna, l’ho appallottolato, ingoiato e poi sputato fuori, masticato di nuovo, ingoiato un altro po’. Mi ha fatto molto male, mi ha lasciata senza fiato. Non c’è niente in questo corpo, niente che sia visibile, visibile allo sguardo esterno, intendo, che racconti di me e della mia vita. Non c’è niente che ne tenga memoria, in questo corpo all’apparenza sano, vestito, truccato, i miei capelli ricci in ordine.
È tutto invisibile, penso. Non si vede nulla. Nulla di quello che invece vorrei fare vedere a tuttə, come medaglie d’onore o souvenir di una gita durata troppo a lungo. Non si vede niente di quello che vorrei tirar fuori, fuori dalla carne, e indossare sulla pelle, anzi sui vestiti. Quanto sarebbe bello, penso, immagino, in un momento di delirio, quanto sarebbe bello prendere il mio cuore e distenderlo, lisciarne la superficie, risolverne le pieghe, trasferirlo sulla mia maglietta, indossarlo sul mio petto, fuori da tutto. Eccolo il pin, eccola la spilla. Così se ti avvicini lo vedi, vedi tutto. Ci vedi sopra tutte le cose che dicono che sono altra, che sono diversa, che divergo dalla norma.
Ci vedi sopra tutte le cose che non si vedono.
Ci vedi sopra tutto quello che non si vede.
Quello che non si vede è il mio cervello che accelera, annaspa, improvvisamente frena o cambia direzione. Quello che non si vede è il mio peso sul seno, la scatola enorme piena di sassi che mi trascino dovunque vada, quella che non riesco mai a mettere giù. Il taglio profondo che ha scisso, scavato, rimosso, sempre a perdere, sempre meno, sempre vuoto, sempre assenza. Il dolore continuo, costante, che punge e pungola, che segnala e ricorda. Ora sfogo, ora rumore, ora ronzio, respiro dopo respiro si fa spazio tra le mie costole. Corrente sotterranea, conosce tutti i miei nomi, si sente a casa. Si stringe al mio petto, si aggrappa come si aggrappa la vite sui tutori di legno. Quello che non si vede sono le lacrime che verso, d’improvviso. La lingua nuova che parlo, quella fatta di parole che dicono che niente ha più importanza, se dall’altra parte c’è la morte ad attendermi. Quello che non si vede è il mio sguardo dietro, quello oltre le palpebre, oltre le pupille, oltre la vista. Quello velato, nascosto, quello che sa perché ormai lo sa che tutto è imperfetto, fugace, fallace. Quello che sa che vivere altro non è che un tentativo di consolazione in un mondo spesso privo di senso. Quello che bussa alla porta di chi sono, di chi voglio essere. Di questo cuore che vorrei indossare come si indossa una spilla, sui vestiti, mentre batte e sanguina e tu vieni più vicino, ancora un po’ più vicino, e sopra ci vedi tutto, tutte le cose che non si vedono.
E ti ricorda che io, adesso, sono altra.
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho visto The Residence su Netflix. Devo dire la verità, a un certo si complica a bit much per i miei gusti, ma Uzo Aduba mi è piaciuta parecchio.
Come si racconta bene Gaza con dati e grafici, l’ultimo numero di
. Non smettiamo di parlarne, vi prego.Una canzone (da qui arriva la citazione in testa alla puntata): “Songs: Ohia” con “Being in love”. “Being in love / Means you are completely broken / Then put back together”. Put back together.
Oggi forse era dura. Fate ə monellə!