Lavorare lavorare lavorare
Preferisco il rumore del mare. Che significa rientrare a lavoro dopo il cancro? Solo domande e nessuna risposta, mi dispiace.
“Vivere per lavorare
O lavorare per vivere
Fare soldi per non pensare
Parlare sempre e non ascoltare”
Lo Stato Sociale - Una vita in vacanza
Il titolo di questa newsletter arriva dal Monumento Nespolo, o Monumento di Parole, sul lungomare di San Benedetto del Tronto. Ci penso da giorni, perché sono tornata a lavorare. Ci penso da giorni perché sento ancora la voce del medico della mia assicurazione sanitaria aziendale che mi ripete, con calma e precisione, con sicurezza:
lei deve tornare a lavorare
perché lavorando penserà sempre di meno al cancro
e sempre di più alla vita
A volte mi chiedo se le persone che lavorano in questo settore seguono dei corsi per imparare a memoria una serie di frasi a effetto. Sono un po’ monella, lo so. Mi rendo conto in realtà che è importante invece, che bisogna scegliere le parole con cura per parlare a una paziente oncologica, per parlare a ogni paziente, really. Ci pensavo soprattutto qualche mese fa, durante uno dei miei appuntamenti di “safety follow-up” dall’oncologo. È il momento dei tirocini, qui in Belgio, e ogni volta che vado in reparto c’è unə studente diversə in sala con il mio medico. Se ne stanno sedutə in un angolino, col loro camice bianco e piccolo, uno che dice chiaramente che non hanno ancora il loro posto dentro questo enorme sistema di cura e di assistenza. Se ne stanno sedutə e partecipano ai nostri colloqui, prendono appunti, possono fare domande, osservazioni, insomma, devono imparare in qualche modo. Un paio di mesi fa la studentessa di turno, mentre si parlava del fatto che sono una paziente giovane (giovane per avere un cancro, insomma), ha sfoggiato un sorriso a trentasei denti e, in un modo forse un po’ infantile, ha esclamato “l’idea di invecchiare mi terrorizza, voglio restare giovane per sempre!”. Io ho alzato le spalle e le ho detto che non solo non è possibile, ma che invece invecchiare per me - dal cancro in poi - è diventato davvero un privilegio. Non ero arrabbiata, soltanto sincera. Lei è impallidita, il medico si è spostato leggermente sulla sedia, si è girato verso di lei, l’ha guardata dritta in faccia e le ha detto qualcosa tipo: “quello che è bene o non è bene dire quando si parla coi nostri pazienti lo imparerai col tempo”. Insomma, niente corsi di preparazione, mi pare di capire. La studentessa ha chiesto scusa, ma, almeno io, non ne avevo davvero bisogno. Lo scorso lunedì, invece, ho visto un altro studente. Mentre l’oncologo mi spiegava che non ci saremmo visti per tutta l’estate e che sarei dovuta tornare a settembre, io mi sono messa a piangere. Un po’ perché la cosa mi terrorizza, e un po’ perché non mi pare vero che in qualche modo mi stesse dicendo, ancora una volta - vada, ci lasci qui dentro, a noi, e pensi a vivere. Ho visto gli occhi lucidi dello studente. Forse non dovrebbe fare il medico, ho pensato. A volte sono proprio stupida, lo so.
Perché piange? Mi ha chiesto lui. Ho provato a spiegarglielo. Poi ho aggiunto, dando voce ai miei pensieri (e forse un corso di comunicazione dovrei seguirlo io):
ma sei sicuro di voler fare questo lavoro? si piange un sacco. si muore tanto.
Lui mi ha detto una cosa banalissima:
beh lei oggi sta meglio, torna alla vita, in mezzo a tanta morte mi pare una cosa bellissima
Questo studente farà strada.
Ho pianto molto, dopo, mentre provavo a registrare messaggi vocali per dire a lei di come stavo, di cosa significava. Singhiozzavo, non riuscivo a parlare.
Il giorno dopo sono tornata in ufficio. Il mio primo giorno di lavoro in presenza dopo un anno e mezzo di malattia e di invalidità (questa parola non ci piace, ma la scriviamo e speriamo di spogliarla di significato a poco a poco). Mi pare un miracolo, il modo in cui le tempistiche si stanno allineando da sole, o forse questa è solo l’ulteriore conferma del fatto che in ospedale mi hanno seguita bene, in modo intelligente. Sul tragitto verso l’ufficio l’ansia mi ha consumata. Sentivo il cuore a mille, il mal di pancia, le ginocchia fragili.
Ho pensato a Pavese e alla sua raccolta Lavorare stanca:
I lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo
un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi
nella gente che va per la strada. Ciascuno ricorda
di esser solo e aver sonno, scoprendo i passanti
radi — ognuno trasogna fra sé,
tanto sa che nell’alba spalancherà gli occhi.
Il lavoro comincia prima, molto prima.
Sono arrivata in ufficio e ho preso il caffè, ho ricevuto qualche abbraccio (decisamente più di quelli che ricevevo prima, in ufficio, che erano esattamente zero). Ho riordinato la scrivania, iniziato a guardare email, aperto slide in power point, fatto una riunione. Poco prima di fare pausa pranzo sono andata in bagno, e mentre mi lavavo le mani, col cuore ormai più tranquillo e le ginocchia più robuste, mi sono guardata allo specchio e ho pensato: “embè? tutto qua? chissà che mi credevo”.
Tornando a casa ho scritto alle mie amiche, quelle che si sorbiscono tutti i pensieri del mio cervello che non dorme mai, ho scritto a loro per dire, sostanzialmente, che mi pareva d’improvviso che nemmeno il mio lavoro avesse più senso. Il fatto che sia lo stesso, forse, dopo quello che mi è successo, dopo quello che ho vissuto, il fatto che non sia cambiato, e che ci si aspetti da me le stesse cose, con le stesse parole e le stesse azioni, mi destabilizza profondamente. Che poi mi accorgo che forse sono io a costruire queste aspettative.
Sono molto confusa a riguardo. So di correre il rischio di scadere nella banalità delle frasi da baci perugina. Il cancro mi ha cambiata, ha messo tutto in prospettiva, non riesco più ad arrabbiarmi o provare sentimenti per certe cose come una volta, le mie priorità sono altre. Dico e scrivo queste parole senza riuscire a capire se sto dicendo la verità o una menzogna. Se mento, vi giuro che non lo faccio apposta. Ve lo giuro.
Ho cercato online risorse che parlassero del rientro a lavoro dopo una diagnosi e un percorso di cura dal cancro. Ne esistono tantissime. Tanti i consigli: evitare di andare troppo in ufficio, lavorare da casa quando possibile, ascoltare il proprio corpo, riposare a sufficienza, chiedere aiuto quando serve, non aver paura di mostrare la propria vulnerabilità, le proprie difficoltà. Tutte cose giuste e sacrosante, per carità, ma non ho potuto fare a meno di notare che molto di quello che è scritto sul web a proposito parla di lavori che, diciamocelo, godono di un certo privilegio. Immagino - e posso solo immaginarlo - che lavorare su una linea di produzione in fabbrica non ti permetta di fare sonnellini dopo pranzo, né di lavorare da remoto quando proprio non te la senti di muoverti. Questa cosa mi ha innervosito, e così ho smesso di fare ricerche online. E ho smesso di fare ricerche anche perché l’unica cosa che mi interessava davvero, l’unica che ancora mi interessa, non è quasi mai menzionata:
come si rimette un abito smesso, dopo che non lo abbiamo indossato per così tanto tempo? come faccio a coniugare la mia (nuova) identità con quella che ero prima?
Prima del trauma, prima della malattia, prima di tutto. È quel benedetto manuale di sopravvivenza che non trovo da nessuna parte. Forse dovrei scriverlo io.
Oggi che scrivo questa newsletter il mio primo giorno di lavoro è finito, e ho capito una cosa o due. Forse, non sono sicura. Rileggo questa newsletter e mi rendo conto di non aver capito niente.
In questi lunghi e complicati 18 mesi, ho avuto il grande dono di ricevere solo supporto e sostegno dalla mia azienda. Vicinanza nei momenti più difficili, e adesso che il peggio è passato - adesso che siamo “out of the woods” - tanti sorrisi e tante parole care. Ne sono grata, immensamente. E allo stesso tempo non posso che chiedermi - come fanno queste persone, con cui devo costruire di nuovo un rapporto professionale, uno che ci aiuti a raggiungere degli obiettivi comuni, come fanno a sorridermi pensando di avere davanti a loro la persona che ero? Come fanno a dirmi “bentornata” se io mi sento come se stessi iniziando tutto da capo? A un certo punto ho pensato anche che forse avrei preferito che il responsabile di risorse umane mi avesse chiamata in ufficio e che mi avesse trattata come se mi stesse incontrando per la prima volta:
Dimmi di te. Facciamo finta che non ti conosco. Facciamo finta che non so che hai avuto un cancro, però ecco dimmi anche come il cancro ti ha cambiata. Fammi capire come questo modifica la tua identità dentro questi spazi.
Lo so che questa sarebbe stata discriminazione, lo so, me ne rendo conto. Il vostro datore di lavoro non può farvi parlare della vostra salute, che è vostra e vostra soltanto, e non può discriminarvi per il vostro passato clinico. Ma allora facciamo finta di niente? Non è possibile nemmeno questo. Non ho risposte, e proprio questo intendo quando scrivo alle amiche:
mah, nemmeno il mio lavoro ha più senso
Sono quello che produco? No. Non lo ero già prima del cancro. O almeno avevo deciso di non volerlo essere, dopo il dottorato e l’ambiente tossico in cui ero finita a fare ricerca. Il cancro ha cambiato ancora di più il mio approccio al lavoro? Probabilmente sì. Capisco già in che termini? Assolutamente no.
Forse un trauma è davvero per sempre.
Tempo fa in casetta ho conosciuto una donna giovane come me. Alla fine del cancro, in remissione totale e guarita del tutto, si è finalmente detta che di marketing non le importava più un accidente, e che voleva diventare un’infermiera. Sorrideva bene, mentre lo diceva. Io ho pensato “wow”. Un’altra vita. Vorrei essere un po’ come lei, o forse no. Non lo so.
Aveva comunque ragione Pavese, mi sa: ogni cosa può succedere, “e ci basta di alzare la testa dal lavoro e guardare”. Forse devo solo capire che cosa ho visto, io.
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho visto Conclave. Non cercate una trama, perché una trama non c’è. Ma ci sono una recitazione e una fotografia incredibili.
The Four Seasons, una serie TV su Netflix che mi è piaciuta davvero moltissimo. Sì, ho un debole per Colman Domingo.
- mi ha fatto riflettere molto: “Il nostro mantra è che le storie dell’antimafia fanno parte della Sicilia come il mare, le chiese barocche o l’arancina.”
Grazie per aver letto fino a qui. Fate ə monellə!
Quando sono uscita dalla depressione post parto mi sentivo un'altra persona, completamente diversa. Un po' come la donna che descrivi alla fine, ne avevo abbastanza del marketing e volevo aiutare le persone. Non mi sono fermata a considerare che nel giro di un anno avevo: avuto un aborto spontaneo, ero rimasta incinta, avevo partorito un essere umano nuovo di cui prendermi cura totalmente ed ero praticamente da sola a farlo, ho avuto una depressione post parto, è arrivato il covid, mi sono trasferita a Budapest lasciando Parigi. Insomma nella mia vita era scoppiata una bomba, mentre io prendevo decisioni cruciali sulla mia carriera lavorativa in giro c'erano solo polvere e macerie e io pensavo di vederci, di vedermi, perfettamente in mezzo a tutto quel caos.
Solo dopo quattro anni di altro caos mi sono data il permesso, stremata, di stare ferma. Di lasciar posare la polvere, e solo dopo di provare a passare la scopa (neanche l'aspirapolvere, la scopa, per fare più fatica). In un anno e più di stasi, ho tenuto le cose fondamentali senza cercare di darmi un nome né di capire in che modo ero cambiata perché poi queste cose quando stai ferma vengono a galla da sole (e certo, vado in terapia). Questo per dire che non posso neanche immaginare cosa significa scampare a una possibile sentenza di morte, e che magari il senso del tuo lavoro tornerà piano piano (o magari no) ma che il tempo noioso, uguale a se stesso e forse senza senso è una risorsa preziosa, che anche da solo e con estrema lentezza può essere capace di restituirti a chi eri mentre diventi una persona nuova. Un abbraccio!
Userò anche io una immagine trita e ritrita ma credo che sia un'occasione. Ogni nostro cambiamento è un occasione per un necessario repulisti dell'orizzonte umano che ci circonda. Ci saranno persone che vorranno vederti per com'eri perché magari non ti hanno vista mai e persone che cercheranno di capire, con grazia e con il tempo, cosa di te è cambiato. E questa è un'occasione. Perché potremmo dare un nome ai primi, e un nome proprio ai secondi.
Ma, in generale, credo sia sano cercare di smettere di caricare di senso il lavoro. Non mi sembra casuale che chi lo faccia, spesso sceglie professioni che aiutano il prossimo. Perché se lo cerchi, quello sembra l'unico lavoro con un intrinseco e innegabile purpose. Ma, e lo rubo da una newsletter letta qualche giorno fa (“Brand love” won’t save your soul) inizio a credere che il nostro primo compito sia fare bene il nostro lavoro, quando lo facciamo. Cercando in ogni modo di non farlo iniziare prima (io lo sogno la notte, btw) e di non portarcelo a casa. È questo il suo purpose, restare un lavoro, garantendoci il tempo e il modo di restare umani. Dentro al lavoro, se siamo fortunati. Ma fuori, soprattutto fuori.