Inventario di cose e di corpi
Oggetti in casa che congelano il tempo, le mie benedette compagne di sventura: un piccolo catalogo di quel che resta dopo il cancro.
C’è chi dice che il tempo cura ogni cosa. Madre non era per niente d’accordo.
Ci sono cose che non si cureranno mai, pensava lavandosi le mani sporche di terriccio – tutto quello che fa il tempo è concedere di assistere a nuove fioriture a chi ha la pazienza di aspettare.
”Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” - Michele Ruol
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è un libro che ho letto qualche mese fa, in un momento in cui leggevo un sacco, disperata, e lo facevo soprattutto con gli occhi da scrittrice - ah, che complimenti che mi faccio. Scrivi? Sì. Allora sei scrittrice; oh me lo ha detto lei, prendetevela con lei. Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è un libro che ho divorato, con un coraggio che non pensavo di possedere. Il coraggio di contemplare un incendio, ma soprattutto di smuoverne le ceneri, come ha scritto qualcuno su internet. C’è molto di più, però, in questo libro. C’è anche la curiosità di sollevare strati di polvere, provare a ripulire, e avvicinarsi agli oggetti. C’è poggiare lo sguardo, aprire le orecchie, e mettersi all’ascolto delle loro storie, delle storie di chi quegli oggetti li ha posseduti, toccati, usati. Poi rotti, riparati, abbandonati, dimenticati, ritrovati.
Mi ci ha fatto pensare di nuovo
, a questo libro qui, e adesso gli tocca pure leggerlo, amen. E mi ha fatto pure pensare a quando da piccola andavo a trascorrere le vacanze estive in campagna, per sfuggire all’asfalto soffocante del centro cittadino. Ho pensato al primo giorno, quando si arrivava tuttə nella casa al mare che era rimasta inabitata per tanti mesi, ho pensato all’odore pungente di chiuso e di polvere che mi riempiva le narici, ho pensato alle lenzuola bianche, o color panna, sempre chiare comunque, poggiate su divani e poltrone, in salotto. Ho pensato ai letti disfatti, ai materassi scoperti, ai corpi che non ci dormivano su da tanto tempo. Ho pensato alla casa senza vita, stanza dopo stanza, mobile dopo mobile, mi ricordo tutto molto bene, e la cosa mi sorprende. Ho pensato alle pentole dentro gli armadi in cucina, alle posate tutte al loro posto dentro un cassetto, ai giochi conservati da qualche parte, al materassino per il mare, sgonfio e ripiegato, riposto in uno scatolone. Tutto vuoto, tutto silenzioso, tutto morto. Ogni anno bastava qualche ora, perché il tempo riprendesse a scorrere, perché l’orologio andasse avanti, perché le cose ritrovassero il loro senso e il loro uso, con la vita che prendeva forma in cucina, tra la pasta al sugo e le merende al pomeriggio. Con la vita che prendeva forma in veranda, con la TV accesa e i mondiali di calcio la sera. Con la vita che tornava ad andarsene a spasso in bicicletta, con le bacinelle piene di vestiti puliti, e il sole ad asciugarli. Con i piatti pieni di strattu, e il sole ad asciugarli.
Ci ho pensato tanto. Ci sto ancora pensando tanto. In questi giorni, in queste settimane, non faccio che dire che per me vivere è troppo caro, richiede troppa fatica, costa troppo. E mentre lo dico mi rendo conto - e questo lo dice bene il romanzo - mi rendo conto che vivere in verità non è questione di forza, ma di inerzia. Impariamo come si fa, una volta, o facciamo finta, e poi ripetiamo, lo ripetiamo tante volte, un numero finito, ma comunque tante volte se siamo fortunatə, e aggiustiamo il tiro qua e là. Fondamentalmente però continuiamo a vivere perché abbiamo iniziato a farlo. Io sto continuando a vivere perché da qualche parte in un momento preciso ho iniziato a farlo, e il desiderio di continuare è forse più forte di tutto il resto. Non c’è nessuna decisione eroica, nessun gesto grandioso. Sollevo le lenzuola, tolgo un po’ di polvere, tossisco. Tiro fuori i piatti dalla credenza. Una voce tenera, discreta, insistente, mi sussurra: “continua, semplicemente continua”.
Mantengo il movimento, mi muovo per inerzia, vado avanti, altro non so fare.
La mia foresta è bruciata. Mi ha lasciata un inventario di cose e di corpi. Entrambi essenziali nella descrizione e nella comprensione di quello che è diventata la mia vita, il mio vivere.
In giro per casa trovo elastici per capelli, tutti colorati, carini, me ne aveva regalato un set bellissimo lui qualche anno fa: ne tengo uno attorcigliato a una lampada nella cameretta in cui leggo, è blu, di cotone, ha sopra dei fiorellini azzurri e rosa. Lo usavo spesso per legarmi i capelli, quando erano lunghi, lunghissimi. In camera da letto ho il termometro a pile, uno di quei modelli elettronici che non sai mai se ha fatto beep o no. L’avevo comprato perché temevo di avere la febbre durante la chemioterapia, o comunque perché ero andata un paio di volte in ospedale con un po’ di febbre ma stavo così male che nemmeno me ne ero resa conto. È rimasto in camera da letto, sul comodino, dietro, non l’ho più spostato. È poggiato su un tubetto di crema anestetizzante, quella per proteggere la pelle quando dovevo perforare il port. Non ho più spostato nemmeno lei. Nel carrello delle medicine in bagno sono rimaste intere confezioni di tamponi emostatici, di quelli da ficcare su per il naso quando sanguina. Ci sono anche lassativi, pillole contro la diarrea, pillole contro la nausea. In fondo all’armadio pantaloni che non mi entrano più. Top che non riesco più a indossare perché troppo stretti, troppo stretti intorno al seno, all’ascella, troppo stretti intorno a tutto. In cucina tengo sempre uno o due vasi, adesso. Tanti fiori ho ricevuto e troppi ne ho visti morire, alla fine purtroppo l’orchidea non ce l’ha fatta. Non ho mai posseduto così tante creme per il corpo. La secchezza del viso è diversa da quelle delle mani, e delle gambe, e dei piedi che hanno sofferto così tanto mio dio ma così tanto. Ho barattoli aperti e lasciati a metà, tubicini di campioni sparsi in giro per casa, ogni tanto mi dico “basta, butto tutto”, e poi lascio tutto com’è. Nei cassetti i miei foulard e cappelli per la chemioterapia, vicino alle fasce colorate che usavo una volta.
Si è congelato il tempo, nelle cose di casa mia. Nella stampa di Santa Lucia che tengo all’ingresso, vicino alla bottiglietta d’acqua santa o benedetta (non so bene) che mi ha preso mio nipote in gita (zia questa te la devi bere, l’istruzione precisa).
La mia foresta è bruciata. Mi ha lasciata un inventario di cose e di corpi.
La nostra foresta è bruciata, portandosi dietro i nostri corpi. Ne ha lasciati altri. Non sei sola, mi dico spesso. Mi sento naufragata su un’isola deserta, e nessuno intorno a darmi una mano, a sorreggermi, a nutrirmi. Muoio di fame e di sete. Non sei sola, mi ripeto. Ho sempre le mie compagne di sventura, avrò sempre le mie compagne di sventura. Che brutto nome, penso. Non ne conosco altri. Intanto ho i loro corpi e le loro storie, i miei segni che sono anche loro, i nostri segni. Le cose che ci siamo dette, quelle che abbiamo taciuto, le ore interminabili passate dentro le sale d’attesa, nei labirinti bianchi delle corsie ospedaliere. Non sei sola, ne sono sicura.
Ho le mie compagne di sventura, ho la loro generosità.
Quella con cui mi mostrano le loro cicatrici, i lividi che vanno e vengono, la pelle sensibile, i capelli diversi, le sopracciglia che non sono tornate e mannaggia non tornano nemmeno a me. Che occhi belli che hai, però. Ho le loro paure, che sono le mie, la loro angoscia, che è la mia, le loro lacrime. Chissà se hanno lo stesso sapore delle mie. Ho i contorni dei loro volti a farmi compagnia, e io non le conoscevo prima, non c’è un prima con loro, c’è solo un dopo e questa cosa mi salva e che bello che è, poterselo dire.
Che occhi belli che hai, non so com’erano prima, non so chi eri e non importa, sei nuova adesso, sei nuova per te e sei nuova per me.
Continuiamo a vivere perché abbiamo iniziato, da qualche parte, solo che ora lo facciamo assieme. Non solo sola, non sono sola. È una preghiera che sussurro quando penso di non sapere più come si faccia. L’unica preghiera che rimane. Il fuoco voleva bruciare tutto, ma la vita poi, in qualche modo, ha trovato una strada.
La vita forse, in qualche modo, trova sempre una strada.
A me siete apparse voi, i vostri corpi che sanno di resistenza, germogli bellissimi lungo tronchi che sembravano morti, la vostra è vegetazione verde e brillante, i vostri nomi sanno di speranza. Vi guardo e penso - quanto vi sono grata. Vi abbraccio strette ma non troppo perché il dolore è vero, e penso - io ho voi. In piscina, quando a una di noi scappa una protesi in acqua e ridiamo così tanto da farci venire il mal di pancia, fatico a respirare e penso - stare con voi mi cura, stare con voi mi salva.
In salone ho una clessidra, ogni tanto me ne dimentico. Era lì prima del cancro, è lì da tanti anni. Qualche volta la spolvero, la accarezzo. È tanto che non la capovolgo, che non mi fermo a fissare i granelli di sabbia che contano il tempo: sopra quello che abbiamo ancora, sotto quello che non c’è più. La prendo tra le mani e la capovolgo: mi ricordo che la clessidra è l’oggetto nr. 94 dell’inventario. Mi accorgo improvvisamente anch’io di una cosa incredibile: la sabbia si sposta, ma non se ne va mai. Giro la clessidra, e il tempo riprende a scorrere.
Cose che ho letto, visto, sentito
A proposito di lavoro, una lettura onesta, complessa, interessantissima. Grazie a Donata per avermela girata.
Una lettera, una lista. Da leggere. “The list is a portrait. It is a portrait of you, just as you are a brush stroke in the portraits of others. A whole tree in the landscape of some lives, and in others the whole sky. This list of names is a recipe. These are the loves of your life. These loves are your life.1”
Sto vedendo Kaos, che serie bellssima! Purtroppo l’hanno cancellata, sigh.
A presto, e Fate ə monellə!
Questa lista è un ritratto. È un ritratto di te, così come tu sei una pennellata nei ritratti delle altre persone. Un intero albero nel paesaggio di alcune vite, e in altre l'intero cielo. Questo elenco di nomi è una ricetta. Questi sono gli amori della tua vita. Questi amori sono la tua vita.
sto leggendo Knife di Salman Rushdie in questi giorni. a un certo punto lui racconta, mentre guardando dall'unico occhio buono il sangue filtrato dalle ferite intorno a lui, che pensava di stare per morire. ma che contemporaneamente ha detto alle persone che lo stavano soccorrendo di custodire le carte di credito (riposte nella tasca destra) e le chiavi di casa (riposte nella tasca sinistra) perché c'era una vita, nel suo corpo che moriva, che voleva solo pensare un giorno di poter tornare a casa. e ricominciare da dove tutto si era interrotto.