Fatevi avanti
Il 25 novembre è andato. Noi donne sempre più stanche e deluse. Io mi chiedo dove sono gli uomini, in tutto questo: perché non possiamo lottare insieme?
I've been searching
For my wings
I've been searching
For my wings some time
Anche quest’anno il 25 novembre è passato. La giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Non mi piacciono le “giornate internazionali”, e questa newsletter non segue calendari altrui, ma quest’anno è stata particolarmente dura, e ora non riesco a scrivere di nient’altro. Nemmeno se mi sforzo.
La verità è che sono molto delusa, e che ho fatto - faccio - molta fatica. Mi correggo, e spero di non peccare di presunzione se parlo a nome delle mie sorelle:
siamo deluse, e facciamo molta fatica.
Ogni anno ci chiediamo che cosa ha in serbo per noi donne il 25 novembre. Ogni anno è una sorpresa, una serie di sorprese, e forse non arriva mai quello che davvero stiamo aspettando. Quest’anno abbiamo avuto Valditara e la sua negazione del patriarcato, l’uso senza vergogna della conferenza stampa di lancio della Fondazione Giulia Cecchettin per fare propaganda razzista e xenofoba, Meloni che lo difendeva, inneggiando a dati che, ve lo assicuro, non esistono e se esistono non sono per nulla accessibili né consultabili. Ne ha scritto e parlato Donata Columbro per SkyTG24. Ne ha fatto una puntata dedicata
, un numero in cui onData ha messo a disposizione di tuttə la serie storica di dati su omicidi volontari e violenza di genere.Tanta fatica e tanta delusione. Ho visto in giro varianti diverse eppure tutte uguali di una narrazione che continua a dire alle donne come comportarsi per evitare che rimangano oppresse o uccise per mano di un uomo, in molti casi del loro uomo.
La verità è che non siamo padrone nemmeno delle nostre storie.
La verità è che la violenza ha tanti colori, e quando è troppo tardi sfocia nel rosso.
Ha anche tante, troppe parole, troppi sguardi, troppi volti, troppi modi di manifestarsi, ed è vero che spesso noi donne fatichiamo a riconoscerla, ma la colpa non è nostra. È di un sistema che ci vuole in silenzio, in riga, un sistema fatto di ingranaggi vecchi che urlano oppressione e sottomissione. Un sistema che Valditara prova a dirci che non esiste più, e lui non lo sa, ma quel sistema ha proprio la sua voce, e usa le sue parole. Troppe parole, dicevo, e alcune le ho sentite nominare nel corso della mia vita, da uomini che dicevano di amarmi.
Non ti vestire così, provochi troppo.
Non ti truccare, sei troppo vistosa.
Stai ingrassando, adesso si vede la cellulite, non va bene.
Non c’è bisogno che lavori, penserò io ai soldi.
Che cucini a pranzo? Che cucini a cena?
Non sei abbastanza, per me.
E avrei dovuto dire: OK, è stato bello, se non mi ami più, finiamola qui. E invece ho passato mesi a piangere, a pensare che aveva ragione lui, che il mio valore fosse direttamente proporzionale alle sue parole, a quello che vedeva lui, a quello che pensava lui, a quello che decideva lui. Sul mio corpo, sul mio cuore. Sulle ferite che ha lasciato. Sulle cicatrici che faccio fatica a osservare, quelle che il 25 novembre continuano a farmi male, si svegliano e mi ricordano che è roba mia, che mi appartiene, e non solo per le mie sorelle, per le mie amiche, per tutte le donne del mondo. Ma anche per me.
Tanti, davvero tanti anni dopo, mi ritrovo a volte a guardare le fotografie di quel tempo lì, e mi vedo - giovane e bella, pronta a conquistare il mondo - così, pensavo di essere. E mi osservo in primo piano, a Praga, a Berlino, a Roma, ma mi accorgo - tanti anni dopo - che non c’era mai abbastanza spazio per me davanti all’obiettivo. Era tutto destinato a lui. Rubava la scena, rubava la luce, io quasi un’appendice, un’aggiunta, una roba di cui poter fare a meno in qualunque momento.
Poi è arrivata la salvezza. La vita mi ha regalato un miracolo, forse. Insomma, non facciamola lunga, mi ha detto culo: mi ha lasciata. Ho continuato a piangere, poi ho finito pure le lacrime e mi sono detta che volevo prendermi lo spazio che desideravo, davanti a quell’obiettivo, e nella mia vita, l’unica che avevo. Assieme alla salvezza sono arrivate le parole di chi mi ama, e vuole proteggermi. Parole che ascolto sempre con cura ma che mi smuovono dentro anche una rabbia incredibile.
Scrivimi quando arrivi a casa. Non te lo dimenticare, per favore!
Se quella strada è al buio fai un giro più largo, prendine un’altra.
Chiamami, sto al telefono e ti faccio compagnia.
No, a quel concerto da sola non andare.
No, in quella zona lì no per favore.
Ho paura ti succeda qualcosa.
E le capisco, queste parole. Capisco le attenzioni, la preoccupazione, ma vorrei cancellarle con una spugna enorme, e finalmente tirare un sospiro di sollievo e dire: aaaaaah, non ne abbiamo più bisogno. Sarebbe molto bello.
Continuo a sognare una vita, una futura, in cui nessuna di noi ha conosciuto la violenza di un uomo. La sogno per noi tutte.
Uomini, dove siete?
Ho fatto fatica a navigare il web, il 25 novembre. Tanti contenuti su Instagram, ad esempio, avrei preferito non intercettarli proprio. Tipo quello della regione Liguria - che ho visto perché condiviso dalla mia amica Eleonora - che ha lanciato una campagna in cui uomini si chiamano fuori dalla violenza di genere esclamando “Io no”. Una campagna senza senso, che usa, ancora una volta, una posizione di potere e privilegio per prendere le distanze da un fenomeno dilaniante e orrifico.
Io no.
Io? Figuriamoci!
Io non farei mai una cosa così.
No, io e i miei amici no.
No, gli uomini che frequento io no.
Mai mai e poi mai!
È doloroso, vedere che le istanze di questa lotta più che mai necessaria sono abbracciate e accolte, ancora una volta, solo da noi donne e da persone marginalizzate e discriminate, ma ancora poco e niente dagli uomini, soprattutto da quelli cisgender ed eterosessuali.
Voi no? Ma siete così sicuri?
Invece voi sì, eccome se sì. Ogni volta che una donna parla, e la interrompete. Ogni volta che ci spiegate una cosa che sappiamo già, e lo sapete che la sappiamo già. Ogni volta che scoprite che una donna nella vostra stessa posizione a lavoro guadagna meno, ma non fate un cazzo per cambiare le cose. Non denunciate, non dite niente. Ogni volta che vedete un tizio toccare una donna senza il suo consenso, e continuate a non fare nulla. E preferite il silenzio. Un silenzio complice che dice più di mille parole.
Voi sì, eccome se sì.
Ogni volta che vi sedete sul treno o sul bus, e vi prendete tutto lo spazio, con quelle gambe divaricate a dire: sono io, qua, a comandare. Ogni volta che prendete parte a eventi dove a parlare sono sempre e solo uomini. Sempre e solo uomini. Ogni volta che ci fate catcalling1, che ci fischiate per strada, che commentate i nostri corpi. Voi sì, anche voi, eccome se sì. Non serve uccidere, per essere violenti. La vostra indifferenza sa di violenza, ne ha ogni forma e sapore, ma voi forse non la vedete questa cosa qui.
E allora che cosa serve? Che cosa dobbiamo fare, di più?
Siamo deluse, facciamo fatica, ma non ci arrendiamo.
Sarebbe più bello però lottare assieme.
Uomini, dove siete? Fatevi avanti.
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho visto A Man on the Inside e mi è piaciuto davvero tantissimo. Fa sorridere, ridere, piangere, tutto. Scritto da Michael Schur, autore di alcune delle mie serie del cuore: Parks and Recreation, The Good Place, The Office.
Sto leggendo, a voce alta, il primo volume di Vivo, una rivista in inglese in edizione limitata che esplora presente e futuro dei libri nella cultura contemporanea.
L’ultimo numero della newsletter di
è da leggere e rileggere: “Che la vergogna cambi lato”, una volta per tutte.
Fate ə monellə, e prendetevi cura di voi <3
Un termine inglese per indicare una molestia di natura sessuale, prevalentemente verbale, che avviene solitamente in strada. Usualmente perpetrato da uomini verso le donne.
Grazie. È davvero difficile scardinare certi nostri comportamenti profondi, e la negazione che spesso li accompagna. Bisogna fare molto di più. 🙏