Ancora una volta
Una puntata che onestamente non so cosa sia. L'ospedale, il corpo, il blu e il giallo. La Sicilia. Tutto assieme, ancora una volta.
Comunque, una granita di mandorle!
Ciao monellə,
è il 26 febbraio 2025, io sono reduce da due giorni intensi in ospedale, e non ho la più pallida idea di che cosa parliamo oggi che però per voi è già domani. L’ultima puntata vi è piaciuta molto, e penso proprio che ne farò una rubrica: a ogni numero tre nuove parole da imparare, condividere, masticare, e perché no disegnare. Penso proprio che ci aggiungerò dell’arte perché ho bisogno di bellezza. La scorsa settimana ci siamo impegnatə in un piccolo atto di resistenza; questa settimana
ha prolungato quest'azione, scrivendone ancora nell’ultima newsletter, dove riassume un paio di cose che possiamo fare nel concreto. Vi invito a leggere la puntata.Io avrei ancora tantissime cose da condividere in merito, e tanti ma proprio tanti pensieri sulla questione comunità, resistenza, e forme di attivismo. Ma sono pensieri disordinati, e al momento non riescono a farsi spazio né a creare ordine dentro la mia testa, che invece non fa che ripetere, come un disco rotto, le solite parole:
cancro cancro cancro
malattia sopravvivenza
rinascita coraggio morte vita
paura corpo dolori
cancro cancro cancro
Un paio di settimane fa ho ceduto alle spinte propositive di mio marito, e ho comprato due biglietti per andare in Sicilia, alla casa che è ancora casa anche se non è più casa mia. La prossima newsletter la scriverò al sole dell’isola, forse in veranda, a casa dei miei, mentre mia madre mi chiede cosa voglio mangiare a pranzo e mio marito gioca con il cane a piedi nudi in giardino. Anche qui, a Gent, oggi splende il sole, timido ma deciso. Stamattina sono andata a fare una passeggiata nel mio quartiere - avete presente quel trend sui social che dice “vado a fare una stupida passeggiata per la mia stupida salute mentale”? Ecco, immaginatemi così:
Faccio fatica, in alcune giornate un botto di fatica. Poi mi metto il giubbotto, le scarpe (sempre nell’ordine sbagliato), prendo le chiavi di casa e mi incammino. Oggi ho visto i primi fiorellini sbucare dai prati, l’acqua del fiume serena, una nuvoletta bianca e soffice, i profili degli alberi scagliarsi contro le imbarcazioni. Ho respirato giallo, tutto il giallo che ho potuto, e ho provato a ficcarmelo nelle tasche del giubbotto. Perché io respiro a colori, da sempre. E i due colori che sento dentro le narici sono sempre blu e giallo. Toni diversi, gradazioni diverse, ma sempre blu e giallo. Gli ultimi giorni, le ultime settimane, sono state piene di blu. Un blu scuro, blu notte, con qualche accenno di giallo che provava a farsi posto qua e là - però povero non ce la faceva proprio. Stamattina passeggiando l’ho sentito affacciarsi di nuovo, con una pazienza incredibile, quasi a chiedere il permesso:
mi fai posto? Mi infili in tasca? Portami a spasso.
E allora ce ne siamo andati a spasso, io e il giallo dentro le mie narici.
Arrivata a casa mi sono chiesta quanto sarebbe durato, se questo amuleto dentro le mie tasche sarebbe riuscito a resistere ai pensieri, alla stanchezza, ai dolori fisici. Ci pensavo e nemmeno mi accorgevo che l’aria stava già cambiando: note di blu ovunque, anche se un po’ più lieve, azzurro forse, o celeste, non lo so, io non ne capisco molto di colori in verità.
È il 26 febbraio 2025 e io sono reduce da due giorni intensi in ospedale. Ho dovuto rifare una mammografia e un’ecografia, ho dovuto rivivere il dolore, quello fisico del seno schiacciato tra le lastre, e quello psicologico del trauma della diagnosi. Sarà così per sempre - penso, affranta e disperata. Non posso prevedere il futuro, ma so che questa condanna, quella di essere una sopravvissuta, è una condanna per tutta la vita. Il mio corpo resterà sempre un po’ indietro, sarò sempre un “soggetto a rischio”. Mi vedo cucita addosso una lettera scarlatta, ma forse sono io a costruire questo patibolo, non ne sono sicura. Il marchio della mia malattia, della mia storia clinica, dei segni sulla pelle.
In ospedale sento il personale medico borbottare parole, una dietro l’altra.
Scrivono referti, io poi me li leggo con calma. Dicono cose come:
Disfunzioni tra le quarta e l’ottava vertebra. Calcificazione delle cartilagini costali. Tessuto cicatriziale nel seno. Infiammazione acuta.
Sono diventata la pagina un’enciclopedia medica. Non riconosco più il mio corpo, non capisco quello che vuole dirmi e non lo sento più mio. Ho una paura folle di dover sempre aver bisogno del contesto clinico per stare bene mentalmente, di qualcuno che mi dica “va tutto bene, non vediamo evidenza di malattia, il suo corpo è sano e sta bene”. Vorrei riuscire a dirmelo da sola. Vorrei riuscire a sentirlo, ma sentirlo davvero, senza quella coltre di dolore che avvolge tutto come un cellophane.
Conosco queste mani, queste braccia, conosco le mie vertebre, le mie costole. Conosco le mie gambe, conosco i miei piedi. Conosco il modo in cui il mio corpo si adagia sulle superfici, conosco la mia schiena, le mie ginocchia. Il retro delle mie ginocchia. Conosco i miei gomiti e le mie spalle. Conosco il modo in cui si curvano, sotto il peso di quello che riescono a sopportare. Conosco i miei seni, il loro peso. Conosco il mio naso, le mie narici. Conosco come si aprono e chiudono quando respirano il blu e il giallo. Sospiri, soffi, vibrazioni. Conosco tutto, è tutto con me da una vita, tutto vecchio di almeno quarant’anni.
Conosco tutto eppure non riconosco più niente. Come cazzo è possibile?
Vorrei salire su un palazzo altissimo e urlare al mondo che “questo corpo è cosa mia, è mio e lo conosco io, meglio di chiunque altro”. So già che mentirei, perché la verità è che io non faccio altro che custodirne il ricordo. Non so come e quando me ne riapproprierò, mi sembra un sogno fatto di stelle e di giallo, tanto, tantissimo giallo.
C’è ancora il sole, su Gent, mentre finisco di scrivere questa newsletter. Dalla finestra della cucina vedo una donna giù, nel prato davanti casa, che insegna a una bambina ad andare in bicicletta. La piccina cade un paio di volte, indossa un giubbino azzurro e un piccolo casco bianco e rosa. Continua a cadere ma ogni volta si rialza, dà un piccolo abbraccio alla donna, veloce, brevissimo, poi le sussurra qualcosa. Non riesco a sentire dal mio balcone, ma deve essere qualcosa del tipo “nog een keer” - ancora una volta. Risale in bicicletta, prova a pedalare, cade, abbraccia, sussurra. Risale.
La prossima newsletter la scrivo al sole dell’isola, promesso.
Forse è lì che dovrei essere già adesso, ad abitare quella terra che potrebbe scomparire da un momento all’altro, dove tutto parla di tragedia e impulsi di estinzione. Eruzioni vulcaniche, terremoti. Naufragi inevitabili. Impossibile salvarsi.
Forse è lì che dovrei essere già adesso, lì dove il blu domina ma il giallo non ha paura e prova e prova e prova. Ancora una volta.
Cose che ho letto, visto, sentito
La frase in apertura arriva da Manlio Sgalambro e da “La legge dell’appartenenza”: “E anche per lui un giorno inevitabile, il ritorno. Sarà il clima, la luce, l'aria...Una granita di mandorle!”
Ho scritto un piccolo documento che spiega perché la campagna #DefendResearch è importante. Spero sia utile; se avete domande o dubbi o idee mandatemi un messaggino!
Una canzone, che è da un po’ che non ve ne lascio: “Bird Guhl” di Antony and the Johnsons · ANOHNI - “I'm gonna be born / Into soon the sky”.
Fate ə monellə! Vvb <3
e che arrivi il sole a riscaldarlo questo corpo. forse il calore lo renderà di nuovo parte della famiglia.
🫂