A forma di fulmine
Una canzone di Vasco Brondi, le mie Converse rosse sull'asfalto di Roma, e un dialogo di Platone: ma il coraggio, in fondo, cos'è?
Possiamo fare mezze maratone
Per raggiungere il tuo cuore irraggiungibile
Non pensavo di scrivere, questa settimana. Non pensavo di fare uscire questa puntata, troppo presa dal desiderio di andare in vacanza, dai viaggi deliranti della mia mente, dai miei appuntamenti quotidiani per la radioterapia in ospedale. Vado tutti i giorni, ormai da una decina di giorni. Mi spoglio, mi stendo su un lettino, i due infermieri che mi seguono mi aggiustano, mi tracciano linee sulla pelle, le stesse linee che col tempo, l’acqua, e il sudore, se ne stanno lentamente andando. Io provo a respirare e non opporre resistenza. Ogni tanto il pennarello sulla pelle mi solletica, e rido. Poi se ne vanno, chiudono la porta, mi lasciano sola, e una macchina gigante inizia a girarmi intorno mentre un fascio di radiazioni ionizzanti mi martella il seno provando a evitare cuore e polmoni. Povero cuore, penso.
Dura solo una manciata di minuti, really.
Mi spoglio, mi sdraio, mi alzo, mi rivesto. Ci vediamo domani.
Non pensavo di scrivere, questa settimana. Poi, martedì 9 luglio, nella mia quotidiana passeggiata verso l’ospedale, ho fatto partire l’algoritmo musicale in cuffia e ho iniziato a sentire la voce di Vasco Brondi, le note de Le luci della centrale elettrica. L’album era Terra, la canzone A forma di fulmine. Così camminando verso l’ospedale mi sono ricordata del loro primo album, era il 2008, io avevo ventiquattro anni e vivevo a Roma. Avevo un paio di Converse rosse, e ascoltavo la musica con l’mp3. Era il tempo delle (ri)scoperte, degli occhi scuri pieni d’amore, dei compiti di meccanica razionale in libreria, con le finestre affacciate sul Colosseo. Era il tempo degli abbracci su un balcone fatiscente che dava su Largo Preneste, il tempo delle corse sulla linea 14 da San Giovanni, il tram sempre pieno, e il caldo, e l’afa, e le ottobrate romane, e le piazze vuote, e le piazze affollate. Le sere a San Lorenzo, e i sogni di chi ha vent’anni.
In passeggiate su spiagge deturpate
Le piazze sono vuote
Le piazze sono mute
Ogni giorno mi ripeto che sono bella, brava, coraggiosa.
Sei bella, brava, coraggiosa - mi dico.
Coraggiosa. Quando ne dubito, chiedo alle amiche, e loro mi confermano che sì, lo sono, e molto. Incuriosita, mi studio l’etimologia della parola; esistono diverse teorie, alcune interpretazioni, ma sembra che fondamentalmente aver coraggio significhi aver cuore. Povero cuore, penso.
Dacci oggi il nostro coraggio quotidiano
Qualche mese fa, quando facevo la chemioterapia, dicevo spesso a mia mamma - “vorrei essere più coraggiosa”. Ma in realtà non so bene che forma avesse davvero, questo desiderio. Il coraggio è oggetto di studio e ricerca da tempi immemori, e mi è venuto in mente di quando a scuola a filosofia ho studiato il Lachete, il dialogo di Platone sulle virtù e in particolar modo sul coraggio. Siamo ad Atene tra il 424 e il 423 a.C., due padri appartenenti a importanti famiglie, Lisimaco e Melesia, preoccupati per l'educazione dei loro figli, si rivolgono ai noti generali Lachete e Nicia per avere consigli sull'opportunità di introdurli all'uso delle armi. I due generali, a loro volta, coinvolgono Socrate, il quale avvia una discussione sulla competenza in materia di virtù di chi deve dare consigli sull'educazione dei giovani. In breve, i due generali si trovano a essere interrogati da Socrate sulla virtù del coraggio, che dovrebbe essere il loro campo di competenza. Con una catena di domande e risposte inizia la ricerca di una possibile definizione di coraggio. È forse sapienza? È forse la scienza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare? E se è scienza, appartiene alle cose del passato, del presente, o soltanto del futuro?
Mi ha fatto un po’ ridere rileggere questo testo dopo vent’anni: tutti i tentativi di Lachete di contribuire in modo intelligente alla conversazione si dimostrano pressoché vani, mentre Nicia, che sembra essere un po’ più in gamba, cade presto in contraddizione. Il testo si chiude con un’aporia, non arriva cioè a nessuna conclusione definitiva (come accade in un sacco di altra roba scritta da Platone, ideata solo per far diventare cretine noi, povere persone che leggiamo e/o studiamo).
Vi riporto la parte finale perché la trovo davvero divertente:
[Socrate] Allora, Nicia, non siamo riusciti a individuare che cosa sia il coraggio
[Nicia] Evidentemente no.
[Lachete] E io che credevo che l’avresti scoperto, Nicia, visto il tuo disprezzo per le risposte che io davo a Socrate.
[Nicia] Son contento che tu non dia peso alla figura che hai fatto, di non sapere nulla sul coraggio, ma lo dia al fatto che io mi trovi nella stessa situazione…
[Lachete] lo invece consiglierò a Lisimaco e a Melesia di lasciarci perdere entrambi e di rivolgersi a Socrate per l’educazione dei figli1.
Ho letto da qualche parte che ə bambinə hanno un modo diverso di relazionarsi alla gioia e al dolore, ma anche alla paura, e di conseguenza al coraggio. E che questa differenza sembra abbia molto a che fare con la mancanza di controllo che caratterizza le loro vite: non controllano cosa mangeranno a cena, o fino a che ora possono restare svegliə davanti alla TV, non hanno voce in capitolo su un possibile trasloco in un’altra città, nessun controllo sul possibile divorzio deə genitorə, non possono nemmeno decidere se potranno andare a visitare l’amichettə il prossimo fine settimana. Non pensano nemmeno alle conseguenze delle loro azioni, il più delle volte, perché non conoscono le cose - e allora devi assicurarti che non infilino le dita nelle prese della corrente, ecco.
Vorrei tornare bambina, forse. Ma poi mi ricordo che non avevo molto coraggio, da piccola. O forse sì, e non avevo capito cos’era? Come avrei potuto? A stento l’ho capito da adulta.
Ho deciso di fare una ricerca su Google Scholar in merito, e ho scoperto che non esistono poi così tanti gruppi di ricerca che lavorano sulla comprensione del coraggio: ce ne sono alcuni, e lo fanno in relazione ai disturbi d’ansia e ai processi di guarigione da questi. Sono approdata sul lavoro del gruppo di ricerca della professoressa Cynthia Pury, e ho imparato che: in genere si parla di coraggio quando una o più azioni che compiamo servono per ottenere qualcosa che desideriamo fortemente, quando la posta in gioco è alta, e affrontiamo dei rischi per ottenerla, e quando nel farlo proviamo o meno una certa dose di paura (perché sì, surprise surprise, si può essere coraggiosə senza provare paura!). Ho scoperto anche che c’è una grande differenza tra un coraggio di tipo generale e uno più personale - cioè non è che ho fatto una grande scoperta, eh, ma inserire certe cose dentro un quadro di riferimento di pensiero per me ha sempre molto senso.
Ci rifletto un attimo, e penso ad alcune delle cose che faccio nella vita, o che facevo, prima del cancro. Parlare alle conferenze in stanze piene zeppe di persone? Piece of cake, per me, non mi fa paura, e davvero non mi devo impegnare granché. Aggrapparmi a un palo e provare a stare a testa in giù? Mi terrorizza. L’ho fatto una volta, sono caduta, e dopo ho avuto ancora più paura. Sono stata coraggiosa, ma poi ho lasciato perdere, perché non era così importante, per me.
Da quando ho ricevuto la diagnosi del mio cancro al seno, ho sempre paura (OK, quasi sempre). Paura di non farcela, paura di star male, paura di morire, paura di pesare sulle persone, paura di perderle, le persone. Paura che passi, e che poi torni. Paura che le cure non funzionino.
Ma mi rendo conto che per ogni grammo di paura che provo si mette in moto una piccola fibra muscolare del mio cuore. Un grammo di paura, una distensione del miocardio. Un grammo di paura, un moto di spinta dal cuore a tutto il resto del corpo.
La posta in gioco è troppo alta. È la mia vita, l’unica che ho.
Così ogni giorno mi ripeto che sono bella, brava, coraggiosa. Mi alleno al coraggio.
Ogni giorno me ne vado in ospedale. Ogni giorno una canzone diversa. Martedì 9 luglio è partita A forma di fulmine, ed era tanto che non la ascoltavo, e mi ha commosso e mi ha emozionato, col suo:
E fare caso a quando siamo felici
Possiamo crescere ma ricordare per sempre
La tua piccola cicatrice a forma di fulminePoi continuare a vivere e non avere niente da perdere
E così ho sentito una piccola lacrima formarsi nell’occhio sinistro.
Se ne è rimasta lì, sull’orlo del mio occhio, per un po’, sulla linea dove a volte metto la matita nera. Tonda, liscia, una biglia di vetro perfetta.
Mi sono detta - così, deve essere il coraggio, proprio così: una speranza che ancora non s’arrende.
Cose che ho letto, visto, sentito
È successo già un paio di settimane fa, ma mi sono dimenticata di metterlo in newsletter: ho visto Inside Out 2 al cinema. Ho pianto tanto, mi è piaciuto ancora di più :) Tip: cercate su Twitter/X “inside out if it was filmed in my head” e fatevi due risate.
Ho visto The Holdovers, un film che mi sento tantissimo di consigliare: commovente e divertente. Un capolavoro di malinconia.
Ho letto Heartstopper sul web e visto la seconda stagione. Ora aspetto con ansia la terza (manca troppo a ottobre!).
Fate ə monellə! ♡ ︎
Mi fa troppo ridere l’immagine di questi uomini che stanno a filosofare per ore, prendendosi pure in giro, per poi rendersi conto che non sanno niente di niente.
Grazie per avermi trovata e commentata così ho potuto trovare te e le tue parole, che mi hanno aggiustato il sabato ❤️
Da come scrivi e cosa scrivi, io recepisco un cuore bello forte e una testa bella lucida. Chissenefrega dell'etichetta del coraggio, manco Socrate è riuscito a venirne fuori con Lachete e Nicia. Chissà che mal di testa gli hanno procurato quei due, povero Socry.