Un anno dopo
Prigioniera del mio corpo, della mia vita, della mia storia, imparo a misurare il tempo senza usare un orologio: un anno dopo.
In a murderous time, the heart breaks and breaks and lives by breaking
Dire alle persone che ami che hai una malattia molto brutta non è bello, anzi, è dolorosissimo. Lo è ancora di più se ti è sempre importato di proteggerle, queste persone. Solo che a volte non è possibile, e anche questo è amore.
Quando il 20 ottobre 2023 eravamo sedutə nella sala d’attesa del laboratorio analisi dell’ospedale, tra un singhiozzo e l’altro ho improvvisamente detto a mio marito - manda un messaggio a mia mamma, poi più tardi la chiamo io. “Paola ha un tumore, dobbiamo fare altri esami”, ha scritto lui su WhatsApp, nell’italiano migliore che è riuscito a formulare in quel momento assolutamente surreale. Io poi l’ho detto ad alcune persone, e ho chiesto loro di passare la notizia ad altre. Non sapevo come dirlo. Dimmelo e basta, mi rispondevano loro. Non importa come, ti prego, dimmelo. Ho un carcinoma mammario, un tumore maligno. Ho il cancro. Non sapevo mai quante informazioni fornire, quali dettagli includere, quali saltare. Dire alle persone che ami che forse potresti morirne fa un male assurdo. E non solo perché pensi cazzo potrei morire, no, non solo per quello, ma anche perché pensi che vuoi ancora essere figlia, sorella, amica, amante, confidente. Ne voglio ancora, voglio esserci ancora. Ma non posso prometterlo, e questa cosa qui che oggi succede a me, in verità sta succedendo anche a voi che mi amate. Sta succedendo a noi.
Un anno dopo, mi sembra sia passato molto più tempo. Il mio rabbioso amore per la vita mi ha tenuta qui, il mio DNA riscritto, il mio corpo e il mio cuore fatti di tasselli incollati alla meglio, come si incolla un puzzle che hai finito, ma qualche pezzo manca. La casa nasconde ma non ruba, diceva sempre mia nonna, quindi i pezzi salteranno fuori, è solo questione di tempo. Sono soprattutto le medicine, ad avermi tenuta qui, nel vortice di pianti, sconforto, domande. Assieme alla nausea, al disgusto. Quanto disgusto. Negli occhi, sulla pelle, dentro la pancia, in gola, in bocca. Quanto disgusto, mio dio.
Un anno dopo, l’inverno è arrivato ed è passato, si è fatto spazio in giornate nere fatte di pioggia, in mezzo a quel disgusto, poi ha lasciato il posto alla primavera, e finalmente all’estate. È passata anche lei, quasi in sordina, e ora è di nuovo autunno, le foglie di quel rosso spettacolare che non conoscevo davvero prima di venire a vivere in questa parte d’Europa. Un anno dopo, sono tornate le castagne, sono tornate le mie mani che le sbucciano, ma sono più delicate, sensibili, fragili. Scottano. Le castagne, e le mie mani. Scotta anche il mio cuore, ma questo ve lo racconto tra un po’.
Un anno dopo vorrei dire che non importa che sia passato un anno. Che io sto imparando a misurare il tempo senza orologio. A misurarlo con l’amore, con le cose che faccio, con le giornate che vivo due volte, la prima volta quando le vivo, e la seconda volta quando la sera, a letto, prima di dormire mi chiedo: quante mele ho assaggiato oggi? che sapore avevano? quanta dolcezza ho sprecato? E spero sempre che le risposte siano delle belle risposte, ma non lo so mai, non lo so mai finché non chiudo gli occhi e provo a dormire.
Misurare il tempo
Learning to Measure Time in Love and Loss è un saggio di Chris Huntington che ho letto tantissimi anni fa, e che il New York Times ha ripubblicato da poco. Imparare a misurare il tempo in amore e in perdita, potrebbe essere la traduzione in italiano. Il saggio va letto o ascoltato, e io non posso assolutamente rendergli giustizia, ma vi voglio parlare di come inizia e di come finisce. Inizia in una prigione, con un insegnante che chiede a un detenuto di aiutarlo a sistemare un orologio a muro, un orologio sbagliato di qualche minuto:
“A few minutes off?” he said. “We need one that goes by months and years. What do we care about five minutes?”
“Qualche minuto?” disse lui. “A noi ne serve uno che vada per mesi e anni. Che importa a noi di cinque minuti?”
Cinque minuti non fanno la differenza, quando hai una pena da scontare che dura decenni. Un anno dopo vorrei dire che non importa che sia passato un anno. Che io sto imparando a misurare il tempo senza usare l’orologio.
Un anno dopo mi trovo a un cancer camp circondata da persone che il cancro lo hanno incontrato, ne sono guarite, o no, lo hanno lasciato andare, o tenuto stretto. Un anno dopo ho paura di andare, e mentre preparo la valigia per due notti mi dico: forse è troppo, forse è sbagliato, forse è tutto troppo sbagliato. Ma sono stata io a cercare una realtà che potesse aiutarmi a trovare qualche risposta, se possibile, che potesse aiutarmi a usare il cancro per capire chi voglio diventare, e come voglio farlo. Un anno dopo vorrei solo darmi una bella pacca sulla spalla, o farmi una linguaccia allo specchio, ma non una che si prenda gioco di me, una che piuttosto riesca a dire, senza parole: quanto sei bella, tu, bella e forte e lucente. Non ti sei arresa, forse semplicemente perché non sai come si fa.
Un anno dopo scrivo dodici cose che amo su dodici bigliettini, in una stanza bianca ma calda, circondata di persone che sanno cos’è il cancro, anche se ora lo so, che le nostre risposte sono tutte diverse, ma soprattutto le nostre domande sono tutte diverse. Scrivo dodici cose, e poi lascio che il cancro se ne prenda sette, e me ne rimangono cinque. E poi lascio che se ne prenda ancora due, e me ne rimangono solo tre. Tre cose che vorrei non dover mai lasciar andare, quelle a cui non vorrei mai dover rinunciare, quelle che davvero vorrei tenere strette, conservarle per sempre. Un anno dopo capisco, davvero finalmente, che non posso aggrapparmi a nulla, perché non è così che funziona la vita. Davvero. Mi stupisco. Ma è cosi. Non c’e modo di legarsi alle cose, di incollarsele addosso, di tenerle in tasca, di chiuderle con un lucchetto. C’è solo la vita, e con lei un tempo che si scandisce in amore, e in perdita.
Un anno dopo, penso che in realtà lo sapevo dall’inizio, da molto prima del cancro, e mi viene un po’ da ridere. Questa consapevolezza travolgente e a tratti schiacciante di quanto poco nel mondo si possa sperimentare. Di come la mia vita mi tenga ancorata solo a lei. Di come non saprò mai com’è essere più alta, o nascere in Guatemala, o diventare una pop star. Ma saprò delle cose che mi sono successe, e di quelle che ho avuto la fortuna o il privilegio di poter vivere. Saprò com’è nascere su un’isola, saprò com’è avere due case, com’è aver studiato, e quasi non aver mai smesso. Saprò com’è avere il cancro, e diciamocelo, lo volevo sapere? Avrei preferito di no. Saprò, però, di questo modo diverso di misurare il tempo, di riuscire a scandire secondi e minuti e ore senza un orologio, di pensare alla perdita in un modo nuovo, un modo che libera, che quasi mi salva:
I’m constantly aware of lost opportunities. I used to think such lost opportunities were beautiful towns flashing by my train windows, but now I imagine they are lanterns from the past, casting light on what’s ahead.
Penso spesso alle opportunità perse. Un tempo pensavo che queste occasioni perdute fossero belle città che passavano davanti ai finestrini del mio treno, ma ora immagino che siano lanterne del passato, che gettano luce su ciò che ci aspetta.
Lanterne del passato, che gettano luce su ciò che mi aspetta. Qualunque cosa sia.
Sono prigioniera di questa vita, prigioniera di questo corpo, prigioniera di questa storia. È la mia storia, e non la posso cambiare, e forse non la voglio cambiare.
Non posso superare in prosa questo saggio meraviglioso, allora uso la sua chiusura per finire anche questa puntata qui, quella di un anno dopo:
When the battery in my watch died, I still wore it. There was something about the watch that said: It doesn’t matter what time it is. Think in months. Years. Someone loves you. Where are you going? There are some things you will never do. It doesn’t matter. There is no rush. Be the best prisoner you can be.
Quando la batteria del mio orologio è morta, l'ho indossato lo stesso. C'era qualcosa nell'orologio che diceva: Non importa che ora sia. Pensa in mesi. Anni. Qualcuno ti ama. Dove stai andando? Ci sono cose che non farai mai. Non importa. Non c'è fretta. Sii il miglior prigioniero o la miglior prigioniera che tu possa essere.
Non importa che ora sia. Pensa in mesi. Anni. Qualcuno ti ama. Dove stai andando?
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho visto su Netflix Woman of the Hour, un film ben fatto ma una storia agghiacciante. Freschissimo questo articolo su The Guardian che ne parla. TW: violenza sulle donne.
Una poesia di Stanley Kunitz, da cui la prima citazione di questa puntata è tratta: The Testing-Tree. “In a murderous time / the heart breaks and breaks / and lives by breaking. / It is necessary to go / through dark and deeper dark / and not to turn. / I am looking for the trail. / Where is my testing-tree? / Give me back my stones!”1
Ci ho pensato un po’ se lasciarvi questa newsletter o no, e ho deciso di sì:
ha scritto un pezzo che parla di guerra e dati, statistiche, precisione. Fa male, ma va letto.
Fate ə monellə, vvb!
In tempi spietati / il cuore si spezza e si spezza / e vive spezzandosi. / È necessario attraversare / il buio e il buio più profondo / e non voltarsi. / Sto cercando il sentiero. / Dov'è il mio albero del giudizio? / Ridatemi le mie pietre!
c'è un solo modo per stabilire la bellezza di un post: ti fa riflettere!. Non so come sia arrivato a leggerti, ma è stato davvero utile. Hai creato in me nuovi punti di vista che prima non avevo. Complimenti.
Riflessioni bellissime. Dal mio cancro al seno sono passati 3 anni in questo giorni. È proprio vero tutto ciò che scrivi tu. Grazie🙏