È solo una parola
Di colloqui in cassa mutua, tarocchi, invalidità, e no, spesso "non è solo una parola".
I know these things will come to see you
To prove it's true I'll tell everyone
La settimana scorsa mi hanno convocata per un colloquio con un medico della cassa mutua, una valutazione della mia malattia, diceva l’email. Sono andata abbastanza indisposta, di brutto umore, pensando che non avevo nessuna voglia di spiegare perché non posso ancora tornare al lavoro, nessuna voglia di elencare nuovamente la diagnosi, la prognosi, tutte le cure degli ultimi undici mesi. Come si chiamano le pillole che prendo ora? Devo inventare un sistema mnemonico perché me lo dimentico sempre: cape, perché qualcuno mi chiama capa e di cape al mondo c’è un sacco bisogno, cita, come la scimmia di Tarzan (ma lo so che non si scrive così) e bigne, ma senza la g che le g non ci piacciono e nemmeno i bignè, quindi bine: cape-cita-bine. Se me lo chiede, lo so: prendo capecitabine, quattro grammi e trecento milligrammi al giorno, ho appena iniziato il terzo ciclo. Le so, le risposte, e mi scoccia da morire pensare che mi farà dei quiz.
Il medico mi stupisce: sa perché è qui? - mi chiede - no - dico io - lei mi aspettava, e io sono venuta. Lui continua: lo scopo oggi non è mettere in discussione la sua malattia, ma provare a immaginare il futuro, se possibile. Oh, penso - e tiro un sospiro di sollievo. Adesso tira fuori una palla di cristallo, o forse mi legge le carte? Certi tarocchi sono così belli. Indica il monitor, e mi dice - è tutto scritto nei suoi file digitali, e io sono un po’ delusa, ma del resto che mi aspettavo? Eccolo, il registro elettronico del mio corpo, mesi e mesi di analisi del sangue, di esami, di referti, di opinioni professionali, di ricoveri, di link che portano a portali di immagini, ecografie, risonanze magnetiche, tomografie computerizzate. Ho studiato tutto - mi ripete - so tutto degli ultimi mesi. Vorrei dirgli che quello è il passato, non il futuro, ma sto in silenzio, e aspetto la sua prossima mossa. Vorrei anche dirgli che quei file non dicono niente del mio cuore, della mia mente, della mia vita. Parlano di un tumore, non di Paola. Forse a lui non interessa, continuo a stare in silenzio, aspetto la sua prossima mossa. Allora me la chiede, mi chiede la famosissima domanda da un milione di dollari: signora, come sta? Come sta, ora? In questo momento? Mi spiazza di nuovo. Beh - gli dico - ho un po’ di mal di pancia ma immagino sia perché sono nervosa, avevo un po’ di nausea a colazione, ma sembra essere calmata. Per il resto, sto. E se stessimo giocando a carte, io starei perdendo - aggiungo, nella mia testa. Non so perché, ma non riesco a fare a meno di pensare che questo sia un test, la prova orale di un esame a cui non voglio partecipare, ma ormai sono qui, davanti alla cattedra, tengo un libro immaginario tra le mani e penso “chiedimi il capitolo tre, chiedimi il capitolo tre”. E il capitolo tre per me sono le pillole, lo so a memoria: capecitabine, capecitabine, capecitabine.
Non me lo chiede. Improvvisamente lo sento dire, come se parlasse da un’altra stanza, da un altro spazio: Signora, come sta suo marito? I suoi amicə, la sua famiglia? Hanno il supporto che serve? Cosa possiamo fare per loro? Mi trova impreparata (e dire che avevo studiato). Farfuglio delle robe, poi mi chiede, di nuovo, come sto io, gli ripeto della stanchezza, della nausea, le pillole, dico, vuole sapere che pillole prendo? E mi dice: no signora, mentalmente, intendo, l’umore? Come sta? Mah, gli dico, non faccio altro che vedere psicologhe, a qualcosa dovrà pur servire, no? Sorride. Mi manca la mia vita. Lo sport, il lavoro, la mia bici, la Sicilia. Sento la vista appannarsi. Penso che basti, come risposta.
Arriviamo al punto. Dal 20 ottobre 2024 (un anno dopo la mia diagnosi) lei non sarà più in malattia, per la cassa mutua e per il sistema di previdenza sociale: il suo stato cambierà e diventerà di invalidità. Così, dice lui, e io già lo sapevo, ma lui lo dice un paio di volte, e lo dice bene: invaliditeit. Ha una bella pronuncia, questo medico, un accento che capisco benissimo, deve essere di Gent, penso, è l’accento che capisco meglio. Invaliditeit, ripete. Scoppio a piangere. No, bugia, non scoppio a piangere, avevo già gli occhi lucidi perché sono una frignona, ma questa parola sento che mi stringe un bullone intorno al cuore, quello nuovo coi lavori in corso, ed è un dolore che non mi aspettavo, così piango. Non è per sempre, mi dice. Non possiamo sapere per quanto, aggiunge. Mannaggia a lui, se solo avessimo letto i tarocchi, forse la risposta stava lì. Cerco un fazzoletto e continuo a piangere. Non si faccia impaurire dalla parola, mi dice. È solo una parola. Ah, penso, questo non c’è scritto nel mio registro digitale, che io alle parole sono affezionata, che le bevo, le mangio, le mastico, le consumo, le uso, ci dormo la notte, mi ci sveglio al mattino. Le leggo, le scrivo, le stropiccio, le interrogo. Che ne sa, lui. È solo una parola, ripete. Serve a noi per metterla in un gruppo diverso di persone: quella storia dei contributi, di quanto la cassa mutua la supporterà, e le tasse di qui e le tasse di là. Non sento più quello che dice. Questa storia delle etichette e dei gruppi, delle classifiche, delle statistiche nazionali. Improvvisamente mi chiedo perché sto piangendo. Perché sto per essere classificata come invalida? O perché la parola mi terrorizza? Perché ho dell’abilismo e non riesco ancora a decostruirlo? Non so più niente. Mi dice che il mio file è aggiornato, e che da ora in poi non devo più mandare nessun certificato medico, niente: quando sarà pronta a tornare a lavoro, ce lo faccia sapere. Nel frattempo, si prenda cura di lei e della sua famiglia.
Me ne vado rendendomi conto che avevo un sacco torto. Non era un esame. Non era un test. Non dovevo dimostrare niente. Mi piace, avere torto.
A casa non riesco a smettere di pensare a quella parola lì: invalidità. La cerco sul vocabolario Treccani:
invalidità s. f. [der. di invalido]. – 1. Di persona, l’essere invalido, per infermità o mutilazione. In partic., nelle assicurazioni sociali e nell’infortunistica, l’inattitudine, derivante da infermità, mutilazione o difetto fisico o mentale, a conseguire un guadagno mediante una qualsiasi occupazione (i. generica) o mediante il lavoro precedentemente espletato (i. specifica).
Mi chiedo qual è la differenza tra invalidità e disabilità, mi rendo conto di ignorare un sacco di roba, cerco su internet ma non mi aiuta tantissimo. Mi pare di capire che l’invalidità sia legata a una riduzione della capacità lavorativa, come nel mio caso, e che sia rilevabile in un contesto medico-legale, mentre la disabilità si cala in un contesto medico-sociale, che non prevede necessariamente delle indennità economiche. Spero di aver capito bene, leggo un sacco di roba ma mi pare ci sia della confusione. Mi pare servano parole diverse, per parlare di queste cose. Io penso di nuovo a invalidità.
Provo a farne un aggettivo, ma mi suona malissimo. Io non sono invalida, non mi sento invalida. La mia validità non dipende di certo da quanto riesco a lavorare, a produrre, a pagare le tasse, mi rifiuto assolutamente di pensarlo. Vorrei esistesse una parola diversa. Allora mi chiedo, cosa sono io, e cosa non sono io, in questo momento? Non sono disabile, non ho alcuna disabilità, questo lo so.
Sono una persona che ha bisogno di sostegno.
Una persona che al momento non può lavorare, che non lavora da quasi un anno, e che probabilmente non tornerà a lavorare per ancora un bel po’ di tempo. Metto in discussione il mio lavoro, la mia funzione, il mio modo di produrre. Metto in discussione la mia professione, le ore dietro al computer, gli aumenti di stipendio. Metto in discussione tutto. Mi manca il mio lavoro, certo, ma inizio a chiedermi perché, e in che forma. Forse per la prima volta nella mia vita vedo davvero le presa di questa enorme macchina del capitalismo che stringe al collo, dilatando i tempi della produzione, restringendo gli spazi, riducendo le nostre vite a una serie di spettacoli di performance, uno dietro l’altro. Che il mio valore sia quello, mi rifiuto di pensarlo. Che il mio valore fosse direttamente proporzionale al gradino che occupavo, allo stipendio che ricevevo, alle funzioni che svolgevo, prima di essere malata, no, non è possibile. Me lo ripeto più volte, in questi giorni, ma non ne sono così convinta.
Sono una persona che ha bisogno di sostegno, anche economico. E improvvisamente mi rendo conto che in questi mesi questo ho fatto, ho vissuto del lavoro altrui. Questo continuerò a fare, ancora per un po’, vivere del lavoro altrui. Col lavoro altrui pagherò il mutuo, farò la spesa, pagherò le bollette, le fatture della psicologa. Forse è questo, il mondo del lavoro che mi piacerebbe tornare ad abitare, quello in cui so che stiamo costruendo una rete di supporto, a vicenda, dentro un Paese che funziona anche nei momenti di crisi, quelli in cui non sai come farai a sbarcare il lunario.
So che mi serve una parola nuova. Non so ancora che forma prenderà, ma la troverò. Parlerò con altre persone, e la cercheremo assieme. Studierò, che è la cosa che mi riesce meglio. Poi magari tornerò dal medico della cassa mutua: salve, sono quella delle pillole capecitabine, me lo faccia dire almeno una volta, la prego; sono tornata, ho un paio di domande, forse una o due risposte. Che dice, le leggiamo queste carte?
Cose che ho letto, visto, sentito
Mi sa che ho dimenticato a parlarne qui, ma ho ricevuto in dono, e letto d’un fiato, la graphic novel Queeranta di Chiara Meloni (aka Chiaralascura). Solo cuori per lei e per questo lavoro straordinario e necessario (e grazie ad Andrea per il regalo <3).
La
#153 parla di ripetizioni e mi ha fatto tornare tanta voglia di rileggere Paolo Nori, specie Bassotuba non c’è. Io ho l’edizione col gelato in copertina (anche questa un regalo di Andrea, oh!): questa qui, per capirci. “Non sono gli sguardi, le dico, non sono i regali. Non sono quelle, le cose. Io, quando tornavo a casa e vedevo la tua macchina verde con il cappello di paglia sul pianale di dietro, io ero contento. E questa frase, non so cosa mi succede, mi fa piangere come una vite tagliata.” (Un giorno scrivo una puntata della newsletter parlando con il mio angelo custode).Una serie TV per spegnere un poco il cervello: 9-1-1: Lone Star. Primo episodio, cinque minuti dall’inizio, lui scopre di avere un cancro. Siete ovunque, ha detto lei. LOL.
Fate ə monellə torna giovedì prossimo (si spera). Vvb <3
Tanto tanto contento di essere qui dentro e avere risvegliato la voglia di leggere Paolo Nori. E mi hai fatto ripensare a quella parola 'invalidità' attorno a cui sto ragionando da tempo, e al peso di tutte le parole, che contano sempre.
E niente...mi hai fatto piangere. La burocrazia sanitaria italiana ci rende spesso prevenuti. Non puoi fartene una colpa. Ti abbraccio forte