Umanizzazione degli spazi di cura
L'ospedale Sint-Lucas: prolungamento della città tra arte e battelli
Il primo requisito di un ospedale dovrebbe essere quello di non far del male ai propri pazienti.
Florence Nightingale
Spazi di cura e cura degli spazi
Ventisette. Le mie visite in ospedale dal 17 ottobre 2023 all’11 aprile 2024. Oggi diventeranno ventotto, venerdì ventinove, sabato trenta.
Alcune di queste visite sono state particolarmente dolorose, nel cuore e nel corpo. Altre un po’ meno. Ma hanno tutte sicuramente avuto bisogno di spazio, inteso non solo come luogo fisico da abitare come persona malata, ma anche come momento di fruibilità di un diritto ben preciso: il diritto a un colloquio, un accertamento, un esame, una cura. Insomma, il mio diritto alla salute. Mi sono resa conto in questi mesi che la mia personale storia con il cancro sarebbe stata molto meno sopportabile se l’ospedale che mi ha in cura fosse stato “brutto”. Forte del mio privilegio, e grata per lo stesso, mi sono spesso chiesta in questi mesi di malattia: come avrei reagito se avessi percepito trascuratezza all’interno del mio ospedale? Mi è successo in passato, provo a descrivervi cosa ho in mente: materiale informativo datato e in pessimo stato, riviste sgualcite e dalla data inquietante, arredi poco curati, carenza di posti a sedere, sedie senza braccioli, sedie troppo grandi o troppo piccole, mancanza di prese, soffitti che perdono, strani posizionamenti dei monitor rispetto alle sedute, e così via. Potrebbero sembrare tutte cose che passano in secondo piano rispetto alle “cure vere e proprie” (le medicine?) ma in realtà hanno come matrice il non aver pensato alle persone a cui questi ambienti sono destinati. Non averci pensato in fase progettuale, spesso, e continuare a non pensarci nei momenti di routine all’interno degli ambienti. Se fossi stata circondata da tanta trascuratezza, avrei forse messo in dubbio l’efficacia delle cure che mi sono state offerte, arrivando persino a nutrire giudizi negativi per chi queste cure deve metterle in atto (speculo un po’, sì, ma non mi sembra un’ipotesi azzardata).
Non ho scelto la parola trascuratezza a caso: è una parola composta a partire dalla parola cura (come lo è accuratezza, del resto), e proprio della cura vorrei parlare, perché ho capito in questi mesi che soddisfare il diritto alla salute non significa soltanto progettare gli spazi di cura in un certo modo, ma anche e soprattutto prendersi poi cura di questi spazi. È quello che ho sperimentato (e continuo a sperimentare) con l’ospedale Sint-Lucas di Gent che mi ha in cura dal 17 ottobre 2023, e in particolare con i reparti di oncologia e della clinica del seno.
Uno spazio di cura umanizzato
Ora, prima di addentrarmi nelle ragioni che mi faranno tessere le lodi di questo ospedale, vorrei soffermarmi su una tematica che ho scoperto da poco: l’umanizzazione degli spazi di cura (mi ha lasciata parecchio perplessa l’idea che possano esistere spazi di cura deumanizzati, ma questa è un’altra storia). Facendo un po’ di ricerche online, ho scoperto che a cavallo del 2000/2001, nella sua breve permanenza come ministro della Sanità (all’epoca si chiamava ancora così) Umberto Veronesi avviò un progetto affidato a una commissione ministeriale guidata dall’architetto Renzo Piano per la realizzazione di un nuovo modello di ospedale. Ne vennero fuori dieci principi, e il numero uno era proprio quello dell’umanizzazione: “il malato deve essere posto in un ambiente a misura d’uomo (e speriamo anche di donna e bambinə - questo l’ho aggiunto io), sicuro e confortevole, in cui sia garantita la privacy; deve essere informato e guidato; non deve vivere a stretto contatto con gli altri malati; deve avere la possibilità di ricevere le visite di parenti e amici a qualsiasi ora.” In questa intervista del 2012, Piano dice:
«Un ospedale non deve essere solo una macchina con determinate caratteristiche di funzionalità, ma anche un insieme di accorgimenti ambientali che aiutano il malato a stare bene psicologicamente»
Di umanizzazione degli spazi di cura si parla ancora oggi, tant’è che l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali del Ministero della Salute ha sviluppato un programma partecipato e un progetto di ricerca che ha portato alla stesura di un documento di 340 pagine dal titolo: “L’umanizzazione degli spazi di cura - Linee guida”. Non ho letto tutto il documento, ma mi è sembrato un compendio di idee bellissime per assicurare la cura, sviluppare una cultura della salute, lavorare in rete, garantire l’efficacia della cura anche in situazioni di emergenza (penso al COVID) e l’umanità non solo per chi è assistito ma anche per chi assiste.
Allora ho provato a fare un esercizio mentale e mi sono chiesta: in che modo il mio ospedale è uno spazio di cura umanizzato? Segue qualche risposta.
Il Sint-Lucas di Gent si trova nel cuore della città, è insomma un vero e proprio ospedale urbano. Come tale, si vanta di essere “luogo di cura come prolungamento della città”, una cosa di cui aveva già parlato Piano vent’anni fa. In questo senso l’ospedale rimane una struttura aperta, immersa nella vita di Gent, e lo dimostra la sua partecipazione a numerose iniziative cittadine, come quella corrente al Gent International Festival, per la quale è stata creata un’opera d’arte sulla piazza dell’ingresso principale dell’ospedale:
L’arte è usata spesso dentro (e fuori) la struttura ospedaliera come mezzo di cura e di bellezza: la strada 30 (la mappa dell’ospedale è fatta di strade) ospita sempre esposizioni di artisti (soprattutto locali) che cambiano continuamente nel tempo:
E quando l’ospedale va incontro a lavori di manutenzione (e succede spesso, per non scadere nella trascuratezza di cui sopra), ə pazienti possono usare i muri come tele per dar sfogo alla loro creatività:
Come dice sempre Laura Rossi, la cura comincia dalla parola, e, aggiungo io, il primo mattone è sicuramente l’ascolto: il diritto a essere informatə salvaguardando la propria privacy, così il diritto a partecipare alle decisioni mediche, dipende anche dai luoghi in cui si può esplicitare la relazione tra il personale medico e ə pazienti. La comunicazione, onesta, diretta e rispettosa, richiede uno spazio dedicato al dialogo, che sia adeguato in termini di ambiente, illuminazione e tranquillità, per facilitare l'ascolto e la comprensione reciproca. Alla clinica del seno le infermiere mi offrono sempre qualcosa da bere, mi chiedono se sono comoda, se ho bisogno di qualcosa; a ogni momento cruciale del percorso di guarigione vengono da me a vedere se ho domande: è cambiata la terapia? sono caduti i capelli? si avvicina il momento dell’intervento? Siamo qui per te. Chiedi pure. Scrivi tutto quello che ti passa per la testa, con calma, e poi inondaci di domande.
E se non parli l’olandese? (io lo parlo, ma non tutte le persone che vivono a Gent lo parlano, e non per questo hanno meno diritto a un’assistenza totale). Se la lingua è un ostacolo, l’ospedale offre un servizio di mediazione interculturale in cui traduttori e traduttrici traducono tra personale medico e pazienti (l'ospedale dispone di interpreti che forniscono assistenza linguistica in turco, russo, arabo e bulgaro, più la lingua dei segni, mentre per altre lingue bisogna prendere un appuntamento). Non è ovviamente soltanto una questione di lingua: i problemi di comunicazione possono sorgere anche perché le cose vengono comprese in modo diverso in un determinato contesto culturale. Basti pensare che in alcune culture scuotere la testa come a dire no in realtà significa sì. Pensavo anche al fatto che questa cosa della mediazione interculturale non è banale, perché una grande percentuale delle richieste proviene da migranti con figli/e natə in Belgio: non dovrebbe mai essere compito di un bambino o di una bambina comunicare una cattiva notizia ai propri genitori.
Non so dire molto delle scelte architettoniche dell’ospedale (non me ne intendo), ma posso fare delle osservazioni da persona che deve navigare tanti spazi, a volte nello stesso giorno, a volte sentendosi anche un po’ male. I posti sono facili da raggiungere, le istruzioni all’accettazione chiare, le luci non troppo forti, il sistema di ventilazione sempre intorno a una temperatura ideale. Le tende vanno su e giù a seconda dell’ora del giorno e delle condizioni meteorologiche: se fuori c’è il sole, le tende salgono e la luce naturale invade le stanze. I reparti hanno caratteristiche visive uniche a seconda del tipo di malattia e degenza; nel mio tragitto verso oncologia passo sempre dal reparto di malattie infantili, e non posso che ammirare l’enorme battello di legno su cui si arrampicano piccini e piccine.
Le lodi al Sint-Lucas finiscono qui, promesso. Voglio chiudere questa puntata riportando le parole del professor Giancarlo Izzi, responsabile del modello sanitario dell’Ospedale dei bambini di Parma, sulle scelte progettuali di un ospedale:
La salute e la malattia rappresentano due dimensioni della vita; ognuna richiama in sé le connotazioni e i segni dell’altra. Le scelte progettuali devono, pertanto, consentire di vivere la condizione di crisi indotta dalla malattia e dall’ospedalizzazione come sfida evolutiva e crescita. Il recupero culturale della malattia, come esperienza avente valenza conoscitiva che obbliga a confrontarsi con i limiti e la finitudine della condizione umana, comprende anche la riappropriazione dello stupore nei confronti della vita e la restituzione del valore e del significato dell’esistenza nella sua globalità.
Sono delle parole che leggerò ancora moltissime volte, ad alta voce. Parole che mi ricorderanno per sempre la grande gratitudine di aver trovato uno spazio di cura come il Sint-Lucas, dove non ci si occupa soltanto della mia guarigione, ma anche della tutela dei miei rapporti affettivi, delle mie relazioni interpersonali, dei miei bisogni, materiali e non.
Lo terrò a mente in questa giornata, mentre vado in ospedale per la ventottesima volta.
Cose che ho letto, visto, sentito
Sto leggendo “Im/Paziente. Un’esplorazione femminista del cancro al seno”. Ci metterò una vita perché mi fa piangere tanto. Poi ne scriverò, sono certa.
Ho ripreso un altro dei miei comfort show: “Modern Family”. Mi fa ridere, e ho bisogno di ridere. L’episodio più bello di sempre ha questa scena qui.
Mi è piaciuto tantissimo “Come e perché abbiamo ignorato per secoli i dati sul ciclo mestruale”, l’ultimo numero della newsletter Ti Spiego il Dato di Donata Columbro, scritto da Roberta Cavaglià. Sul mio profilo IG, in evidenza, un po’ di storie e raccolte dati su mestruazioni & COVID e mestruazioni & presidi sanitari.
A giovedì prossimo! (spero!) Frattanto, fate ə monellə!
Che bello questo ospedale. Che tranquillità saperti in buone mani. In questi giorni ragiono molto sulla sanità, e in Italia la situazione mi sembra sempre peggio. C'è sempre da litigare, lottare per i propri diritti. Non vengono rispettate le persone, né quelle in cura né quelle che curano.
Grazie anche per il video di Modern Family, è una delle mie "comfort series" e mi hai fatto venire voglia di rivederla!
Grazie mille per la menzione, Paola! Sto lavorando a un reportage su un posto in Italia dove è possibile per le persone con Alzheimer e decadimento cognitivo continuare a vivere una vita di scelte, autonomia e socialità. Gli spazi giocano un grandissimo ruolo in questo e leggere questa newsletter mi ha aiutata a metterlo a fuoco ancora meglio. Grazie!