Tra cinque anni
Il nove aprile del 2020. Il nove aprile del 2030. Quando sia ama, persino per sempre non è abbastanza.
Eppure, la vita aveva un modo di sommare giorno a giorno.
Virginia Woolf
Oggi è il nove aprile (lo so che per voi no, lo so), e il nove aprile da cinque anni a questa parte significa solo una cosa: Jon non c’è più, è morto, se ne è andato. All’improvviso, nel cuore della vita, nel cuore della giovinezza, nel cuore della bellezza.
Non ci credo che sono passati cinque anni; il mio corpo lo sapeva, lo sa da settimane, che il nove aprile era dietro l’angolo, in agguato, pronto ad afferrarmi per le caviglie e a trascinarmi giù.
Che ne sa il mio corpo?
lo chiedo a lei, che pensa sempre che il corpo sa tutto. Mi risponde chiedendomi:
Non hai la percezione del tempo?
No, le dico, io il tempo non lo capisco e non l’ho mai capito. Giorni, settimane, mesi, anni, niente ha senso per me. È un sistema di orientamento che non mi aiuta, non mi appartiene, coordinate che non comprendo, senza forma e senza dimensione. Una bussola che non funziona. Non ha mai funzionato. È anche per questo che faccio fatica a ricordare le cose, perché non so dove metterle: per me il tempo è una retta che inizia da qualche parte, prosegue, e continua dritta e soffice, spessa e densa, ma non ne capisco la direzione, non ne seguo i confini. È un continuum, uno spazio che abito ancorata a luoghi e persone, ma mai al calendario. Mai. Eppure adesso una parte di me (la testa, la mente, l’anima, il cuore? chi può dirlo), una parte di me lo sapeva che il nove aprile stava arrivando.
Quest’anno è più dura del solito, penso. Non so se sia davvero così, perché non mi ricordo gli altri anni, a dire il vero. Di sicuro non mi ricordo lo scorso anno. So che ero stata dimessa da poco dall’ospedale, so che stavo per fare l’ultima chemioterapia, l’ultima di quella rossa, quella che mi ha stesa, lasciandomi navigare sospesa tra il regno delle persone morte e quelle vive. Devo aver pensato a Jon, mi dico adesso. Sono sicura di sì, non è possibile che me ne sia dimenticata. Non ne sono sicura.

Il nove aprile del 2024 forse non ho pensato a Jon.
L’idea mi turba e mi distrugge. Sento che oggi devo recuperare, sento che devo dirgli a voce alta che mi manca, che mi ha lasciato un vuoto dentro al cuore che non riesco a riempire. Sento che devo fargli sapere che non è passata, che non mi sto dimenticando di lui. Corro a vedere le nostre chat, scorro l’album con le sue foto, rileggo i suoi post su Instagram. Voglio che sia vivo e vero e reale e doloroso. Mi afferra per le caviglie, mi lascio afferrare, mi lascio trascinare giù.
La verità è che questo quinto anniversario arriva sapendo, sentendo, capendolo davvero, che il ricordo di Jon inizia a sbiadire. Se chiudo gli occhi riesco ancora a vedere il suo volto, il colore dei suoi occhi, i confini del suo corpo. Le foto mi aiutano, ma posso farcela anche senza, sì, posso. Tanta altra roba però non la vedo più. Aveva quel modo tutto suo di inarcare le sopracciglia, di alzare un angolo delle labbra, a mostrare disappunto, stupore, qualche altra cosa che però non mi ricordo. Aveva un odore, abbiamo tuttə un odore, ma io il suo non me lo ricordo più. Aveva un modo di abbracciare, compiuto e pieno, che stringeva e soffocava. Fatico a ricordarmelo.
La sua voce non me la ricordo più. Vado su YouTube e mi guardo le sue lezioni, i suoi talk. Scelgo questo video qui, quello in cui parla di fossili e dinosauri, io non ci capivo niente. Sì certo, chiaro, è la sua voce. Me la ricordo. Tolgo l’audio e gioco a riempire i silenzi, ci riesco. Mi chiedo quanto a lungo resterà impressa nelle mie sinapsi, mi chiedo se avrò bisogno ancora di ripassarla.
La verità è che sono passati cinque anni, e io Jon me lo ricordo sempre meno. Mi sento in colpa, mi sento tremendamente in colpa. So che lui non vorrebbe, ne sono certa. Dio quanto odio parlare per luoghi comuni. Ma che ne so io, di cosa vorrebbe lui. Questa giornata sporca il mio amore per lui, me lo rende lontano e sfocato, inaccessibile.
Io del tempo non ho mai capito niente. Ma so che oggi sono cinque anni, cinque anni di parole non dette, viaggi non fatti, vita non vissuta. Chissà come sarà tra altri cinque anni. Avrò ancora le sue foto, la sua voce registrata, ma so già che i confini del suo essere diventeranno ancora più sbiaditi, le forme sempre meno definite, le sue sfumature sempre più in bianco e nero. Ed è giusto che sia così, è normale che sia così, perché questo è, elaborare un lutto. Questo è, continuare a vivere, fare spazio alla vita, fare spazio alle possibilità. Di questo sono sicura, sono sicura come è sicura la morte, che Jon volesse solo vita per me.
Oggi mi immagino la mia vita tra cinque anni, Jon. Me la immagino per me, e un po’ anche per te. Per tenerti vicino un po’ più a lungo, per ribellarmi a questo modo impertinente in cui il cervello umano si impegna per la sopravvivenza.
Come sarà la tua vita tra cinque anni? Se fossi più giovane me lo chiederebbero in tantə: dove ti vedi tra cinque anni? Se stessi finendo l’università me lo chiederebbero tuttə: cosa farai tra cinque anni? Ma non sono più così giovane e l’università l’ho finita da un pezzo. Ci provo lo stesso.

Tra cinque anni vivo ancora vicino a un corso d’acqua, e nelle giornate lente e tristi mi siedo ancora su una panchina a guardare le papere, a guardare le barche. Tra cinque anni ho fiori freschi in cucina, un set di piatti nuovo, tutti colorati, sempre colorati. Li tengo sulla mensola, tra le piastrelle verde acqua, così ho voglia di mangiare, tra il giallo e il viola e il verde e l’azzurro. Tra cinque anni non so che lavoro faccio, ma tanto ho capito che non mi importa più di tanto - questa roba di non essere più così giovane paga, in qualche modo. So però che le mie giornate sono piene di persone e piene di momenti solo per me. Scrivo ancora, come adesso, forse di più. Non scrivo per vivere, non vivo per scrivere. Tra cinque anni scrivo e basta. Mi faccio leggere. Prendo l’aereo per tornare sull’isola, non mi importa quanto costa, quanto inquina: vivo il privilegio immenso di vedere i miei genitori invecchiare, i miei nipoti diventare grandi. Tra cinque anni faccio viaggi lunghi, lunghissimi, me ne vado dall’altra parte del mondo. Il cibo, i colori, le persone, le tradizioni, tutto mi attrae. Ma mi attrae soprattutto il ritorno. Tra cinque anni viaggio, viaggio tanto, e viaggio soprattutto per tornare a casa. Per ritornare. Tra cinque anni c’è ancora la musica, vado ancora ai concerti. Mi decido ad andare da sola anche a quelli a cui nessuno vuole venire. Vado ad ascoltare i cori a cappella nelle chiese. Mi fanno ancora piangere. E mi fanno ancora piangere le ambulanze a sirene spiegate, gli applausi, Francesco di Giacomo e Novecento sulla scaletta. Tra cinque anni amo. Continuo ad amare, come so amare io, con la mia lingua, le mie parole, i miei gesti. C’è spazio per le persone di sempre, per quelle di una vita, e di una parte della vita. E c’è spazio, tanto spazio, per delle persone nuove. Forse anche per una persona piccola, chissà.
Tra cinque anni è di nuovo il nove aprile, ed è di nuovo senza Jon. E io continuo a chiedere di più. Più del suo tempo, della sua vita, dei suoi sorrisi, della sua voce. Me lo ricordo sempre meno. Non è bastato e continua a non bastare.
Ma certo, che sciocca, quando si ama persino per sempre non è abbastanza.
Cose che ho letto, visto, sentito
E se l’amore romantico fosse solo l'amicizia che persevera? Così ho letto su questo numero di
e non ho più smesso di pensarci: “We were complete. I know you. You know me. I like how it is.”Un pezzetto di “Ogni caso”, una delle mie poesie del cuore di Wislawa Szymborska: “Ti sei salvato perché eri il primo. / Ti sei salvato perché eri l’ultimo. / Perché da solo. Perché la gente. / Perché a sinistra. Perché a destra. / Perché la pioggia. Perché un’ombra. / Perché splendeva il sole.”
Sto faticando a guardare roba nuova alla TV (ogni tanto mi succede), ma ho iniziato la serie Ripley, mi sta piacendo, e poi ho un debole grande per Andrew Scott.
Fate ə monellə! Ci sentiamo presto.
Giorni fa ho annotato sul mio diario “Si muore, poi si sbiadisce.”
Era l’una del mattino. Del 9 aprile. Giuro.
Grazie Paola, perché continui a scrivere. E io continuerò a leggerti 💛.