Misurare la vita
Sono tornata dalla Sicilia. La letterina domani compie un anno. Io mi sono messa a studiare un modello matematico che parla di malattia, disabilità, e morte prematura. Si può misurare la vita?
Buon compleanno, letterina
Questa letterina domani compie un anno. Un anno che stiamo assieme, io e la mia scrittura, voi, le mie parole, i nostri pensieri. Non mi pare vero. La guardo, guardo l’archivio, sfoglio i numeri, cinquantadue episodi pubblicati, mi commuovo. È un catalogo variopinto e ricco, e ci trovo dentro tanta roba dolorosa che forse ha strappato qualche organo vitale qua e là, roba narrata con parole nuove, parole che ho dovuto inventare a volte, o semplicemente imparare a masticare per riuscire a parlare di malattia e di perdita. Ci vedo dentro però anche tanta poesia, sicuramente tanto amore. Mi rendo conto, un anno dopo, di aver costruito per me un linguaggio che sa di tenerezza, tutta la tenerezza che sono riuscita a mettere da parte per la me di ieri e per quella di oggi. Mi disegno un volto nuovo e due occhi per guardarmi. Con pazienza, con premura, con grande impegno. Anche attraverso questa letterina, che domani compie un anno. Sono ancora qui. Siamo ancora qui.

L’ultima breve puntata arrivava dal sud delle cose, dalla fine del mondo, dal mio lembo di terra sospeso. Ora che sono tornata al nord, a casa mia, rivedo le foto sul telefonino ma soprattutto gli scatti custoditi nella mia mente, e so di per certo che la Sicilia è e sarà per sempre la mia saudade, quella cosa tutta portoghese che parla di nostalgia, solitudine, e bellezza tutto insieme. La mancanza struggente di una cosa che si è persa ancora prima di possederla davvero. L'amore che resta, dopo che io me ne sono andata. La collezione di ricordi, sapori, pensieri. Gli occhi verdi e le mani intorno ai fianchi. La luce gialla al tramonto.
Qualche giorno prima di partire ho ricevuto una brutta notizia, una di quelle che però ti aspetti e allora pensi che dovresti essere pronta, che non farà male, perché sei preparata, perché sai che può arrivare in qualsiasi momento.
Prevedere il futuro
R. l’avevo conosciuta in collina. Mi ero appiccicata al suo fianco perché si muoveva con grazia e sicurezza, perché parlava di morte, forse perché parlando di morte non faceva che parlare di vita. A colazione la vedevo imburrare il pane, con gesti lenti e precisi, le mani vecchie e rugose, mentre sussurrava cose del tipo “tanto tornerò, sarò fiore, albero, foresta, fiume, non so ancora di preciso, ma sarò di nuovo”. Io non capivo niente ma continuavo a starle appiccicata, a guardarla con occhi adoranti. “Diventiamo amiche”, le ho suggerito lì, in collina, l’ultimo giorno della nostra permanenza. “Mi piacerebbe” - aveva risposto lei tra una fetta di pane e l’altra - “il medico dice che ho ancora un paio di mesi da vivere, è poco, non so se hai voglia, in questi termini”. Ne avevo voglia, sì, perché la vita che vedevo negli occhi di R. era fatta di spazi e tempi giganti, era fatta di stelle comete, galassie, universi interi. E poi pensavo anche “ma che ne sa, il medico? non è mica dio, lui. se solo vedesse lui, la luce che vedo io”.
Poi, un paio di mesi fa, ho letto un episodio di “Cancer Culture”, uno che parla di personale medico oncologico che prevede il futuro e tutto si è fatto un po’ più chiaro:
It is only at the end of cancer when my quiver is running low on arrows that your time on earth begins to crystallize in my crystal orb. I cannot predict years, but I can predict months, weeks and days. As death comes closer, the future becomes more certain.
È solo alla fine del cancro, quando non ho più frecce dentro la faretra, che il vostro tempo sulla terra comincia a cristallizzarsi nella mia sfera di cristallo. Non posso prevedere gli anni, ma posso prevedere i mesi, le settimane e i giorni. Quando la morte si avvicina, il futuro diventa più certo.
Quattro mesi dopo il nostro primo incontro, R. è morta. Il medico aveva ragione, e io potevo aspettarmelo, ma non è che sapere le cose, o intuirle, o aspettarle, o avere un medico che te le dice, non è che le renda meno schifose. R. è morta, mi hanno detto, e io ho passato molto tempo a immaginare la sua dipartita. Ho deciso che è stata senza dolore, che deve essere successo nel silenzio della meditazione. Deve essersi addormentata al sole, scivolando via anche lei verso il sud delle cose, lì dove vivere costa meno al pensiero, dove tutto è sussulto, alba, tutta la luce per credere e nessun’ombra per dubitare. Lì dove io e lei siamo amiche e ci vogliamo bene, tutto il tempo del mondo per noi, per dircelo, e R. continua a splendere mentre io capisco finalmente come si fa. Mi appiccico a lei e non la lascio più.
Assegnare valore alla vita
Mi chiedo quanti anni ancora avrebbe potuto vivere, R., se il cancro non l’avesse uccisa. Io - contrariamente al suo oncologo - non ho la palla di vetro, non riesco a prevedere niente, ma so che la malattia le ha rubato giorni, mesi, anni, questo lo so per certo. So anche che se mi applicassi, se studiassi, in fondo riuscirei persino a risolverla quest’equazione qui, questa in cui il cancro ha aggiunto dolore e sottratto tempo e possibilità, moltiplicato pene e amore, dividendo la vita a metà. So che esiste una formula - una formula così complessa da rasentare il magico - che riesce a calcolare nientepopodimeno che la quantità di anni che perdiamo in vita a causa di una disabilità, di una malattia, o di una morte improvvisa.
Per capirci, se la domanda che R. ha probabilmente fatto al suo oncologo a un certo punto è stata “dottore, quanto mi resta?”, quella che invece i professionisti della ricerca epidemiologica e dell’economia sanitaria si pongono da decenni è piuttosto “quanta vita viene persa?”:
la metrica che è stata messa a punto si chiama DALY, dall’inglese disability-adjusted life year, in italiano “anno di vita corretto per disabilità”: 1 DALY = 1 anno di vita “sana” perso a causa di malattia, disabilità o morte prematura.
Questo indicatore è stato sviluppato negli anni '90 dall'OMS come parte del Global Burden of Disease, un progetto di ricerca globale che prova a quantificare lo stato di salute della popolazione mondiale, misurando soprattutto la perdita di salute e quindi di anni di vita. Non serve fare grandi ricerche per immaginare che uno dei burden più grandi al giorno d’oggi (il fardello, il peso, il prezzo più alto da pagare) sia quello causato dal cancro. Il grafico qui sotto lo riporta infatti al secondo posto:

Ho provato a studiare il DALY perché mi manda fuori di testa il fatto che riusciamo davvero a quantificare la vita così (ma ci riusciamo, poi?). Vi racconto cosa ho capito. Il DALY è composto da due componenti principali:
YLL (Years of Life Lost): gli anni di vita persi a causa di morte prematura, calcolati come la differenza tra l'età della morte e l'aspettativa di vita standard
si usa l’aspettativa giapponese, che è la più alta al mondo: 80 anni per gli uomini e 82.5 per le donne
YLL = N x L ovvero: numero di decessi moltiplicato per l’aspettativa di vita di riferimento all’anno di morte (in anni)
esempio: un uomo in piena salute che muore improvvisamente a 30 anni contribuisce alla metrica con 50 anni persi per morte prematura rispetto all’aspettativa di vita
YLD (Years Lived with Disability): gli anni vissuti con disabilità, ponderati in base alla gravità della disabilità
non sempre avere una malattia significa morire ma si va spesso incontro a disabilità che possono persistere anche per tutta la vita; io dico spesso che sei mesi di chemioterapia mi sono costati 10 anni di vita - ma è soltanto un modo di dire, no?
questa metrica misura il numero di anni di vita che si perdono perché vissuti in stati di salute non ottimale
YLD = I x DW x L ovvero: numero di casi incidenti per un peso di disabilità per la durata media della disabilità (in anni)
esempio: un uomo a 30 anni subisce un grave infortunio al ginocchio e la sua salute è compromessa con un fattore di invalidità del 10%; l’infortunio è incurabile e l’uomo muore a 80 anni, contribuendo alla metrica con 0.1 x 50 = 5 anni
La formula per calcolare il DALY è quindi: DALY = YLL + YLD, come mostra l’immagine qui sotto:

Beh, tutt’altro che complessa, direte voi. Ma come diamine si assegna un valore alla vita? Come si calcolano questi pesi della disabilità? Beh, qualcuno lo fa per noi. È un processo di ricerca partecipato che sostanzialmente prova a capire quali sono le preferenze della società per diverse condizioni di salute rispetto a uno scenario ideale (quello in cui DW=0). Si tengono in considerazione alcune dimensioni principali di salute come mobilità, autonomia, partecipazione ad attività quotidiane, dolore, salute mentale, capacità conoscitiva e partecipazione sociale. Io sono andata a scaricare tutti i dati da qui e ho cercato i coefficienti del cancro al seno, ve ne riporto tre (la traduzione del quadro clinico è mia):
Fase di diagnosi e terapia primaria del cancro al seno; “ha dolore, nausea, affaticamento, perdita di peso e forte ansia” - DW = 0,28
Fase metastatica del cancro al seno; “ha forti dolori, estrema stanchezza, perdita di peso e forte ansia” - DW = 0,45
Fase terminale del cancro al seno; “ha perso molto peso e usa regolarmente farmaci forti per evitare il dolore costante, non ha appetito, ha la nausea e deve trascorrere la maggior parte della giornata a letto” - DW = 0,54
Che significa, sta roba? Significa che in media la società giudica un anno vissuto nella fase di diagnosi di cancro al seno (peso di 0,28) sia preferibile a un anno vissuto con un cancro in metastasi (peso 0,45). Ha senso. Almeno penso. Le cose forse si complicano per altre malattie e patologie. Il modello matematico si fa ancora più complesso se si pensa che abbiamo deciso che il valore sociale del tempo vissuto non è uguale a tutte le età: a quanto pare la vita persa nell’infanzia o nella vecchiaia pesa di meno di quella persa a 25 anni e nel cuore della maturità. Ma non solo, sembra che la vita persa nel presente valga di più di quella che magari perderemo in futuro, e quindi abbiamo deciso di applicare un tasso di sconto alla vita per ogni anno: applicando un tasso di sconto del 3%, un anno di vita sana tra 10 anni vale circa il 74% di un anno di vita sana oggi.
Insomma, se ho capito bene, e penso di aver capito bene - siamo assolutamente pazzə. Ma ho davvero bisogno della matematica per immaginare quanto il cancro abbia sottratto a R.? A quanto avrebbe potuto togliere a me? A quanto ancora potrebbe? No, non mi serve la matematica. Non mi servono coefficienti ed equazioni per spiegare al mio cuore perché si sente così piccolo e triste. Eppure so che questa cornice analitica fatta di numeri e simboli è indispensabile per mappare dei fenomeni che ci riguardano proprio tuttə: la malattia, la morte, la perdita. È solo attraverso una lente grande, enorme, eppure allo stesso tempo dettagliata e minuta, che possiamo capire cosa valga la pena studiare, informare le politiche sanitarie, e indirizzare gli investimenti per la ricerca. Questa lente, ad esempio, mostra che esistono grandi differenze tra uomini e donne nelle principali cause di malattia, rendendo lampante la necessità di approcci alla salute che tengano conto quantomeno del sesso biologico, meglio ancora se l’identità di genere.
Di questo, però, parleremo la prossima vota.
Cose che ho letto, visto, sentito
- che parla di cherry picking.
- che parla di femminismi e prepotenza.
L’ultima poesi di Nazim Hikmet a Vera Tulyakova: “E vieni mi disse / E resta mi disse / E ridi mi disse / E venni / E rimasi / E risi / E son morto”.
Oggi era lunga, grazie di aver letto fino a qui! Fate ə monellə :)
R. è sicuramente diventata un'onda del mare. E tu l'avrai ritrovata in Sicilia, ed è in qualche foto tra quelle del tuo telefonino.
Il modello matematico lascia senza fiato ma in fondo no, non serve. Io penso spesso al fatto che ci sono anni della vita in cui spingere al massimo non ci costa niente e anni della vita in cui il solo ricordarci di essere in vita costa tutto. e che il mondo in cui viviamo non è costruito sulla base delle stagioni (e degli inciampi) delle nostre vite.