So go ahead and love me while it's still a crime
Sto provando a vivere. E vivere passa attraverso l’aria, il respiro, le narici. Vivere passa soprattutto attraverso il mio corpo. Siamo sempre io e lui, siamo ancora io e lui, stiamo assieme e non riesco a lasciarlo, spesso penso che forse non ci lasceremo più, se non alle soglie dell’ultimo gradino, a quello della morte.
In alcuni trepidanti momenti non sembra esserci posto per niente altro, per nessun altro.
Io sono lui e lui è me.
Sto provando a vivere. Lo sto facendo provando a stare dentro al mio corpo, imparando a camminare di nuovo come una piccola puledra nera e sporca, curiosa e timida, impaurita e bella. Lo sto facendo cercando di recuperare il tempo che ho perduto, quello che paradossalmente non è la malattia ad avermi rubato, no. È successo prima, molto ma molto tempo prima.
Sto provando a vivere attraverso il mio corpo, e attraverso i corpi di chi ha sofferto come me, di quella sofferenza che è il cancro, ma soprattutto di quella sofferenza che è la perdita, la fine, la risoluzione delle cose. Alla mia casetta del cancro ho ripreso psicoterapia di gruppo con i miei fellow sufferers, le mie compagne di sventura. Otto persone, otto storie, soprattutto otto corpi. Il mio è il numero nove, e l’ho deciso io, di stare in coda, alla fine. Ogni settimana respiriamo la stessa aria, beviamo la stessa acqua, ci diciamo le stesse cose anche se con parole diverse, sedute sulle stesse sedie, a calpestare lo stesso pavimento. Io fatico molto, fatico a stare con me e a stare con loro, anche se a loro voglio già molto bene. Fatico soprattutto a chiudere gli occhi e a spostare tutta la mia attenzione sulla mia pelle, sui miei muscoli, sulle ossa, le ossa che stanno lì, in fondo da qualche parte, pronte a sorreggermi e a portarmi in giro, fatico a trovarle, fatico a sentirle. Fatico a contare le dita dei piedi, fatico soprattutto a guardare il peso che sento sul petto, quello che scende verso il mio seno, il mio seno destro, che mi paralizza la spalla, che mi blocca i movimenti, che mi fa sentire rigida e incapace. Allora ogni tanto mi immagino uscire dal mio, di corpo, e di entrare in un altro, uno degli otto presenti. È un esercizio che facevo molto da piccola, uno che in verità non ho mai smesso di fare. Richiede immaginazione e un pizzico di follia; io penso di avere entrambe in abbondanza.
Serro gli occhi e li riapro, mi immagino per qualche momento nel corpo di una di loro, divento il corpo numero uno, poi quattro, poi sette. Ho i capelli rossi, la pelle chiara, gli occhi azzurri, sono più bassa, no più alta, il naso aquilino, le gambe snelle, le spalle ampie. Serro gli occhi, li riapro. Torno nel mio, di corpo. Respiro.
Scrivetegli una lettera, ha detto la psicoterapeuta, una lettera al vostro corpo. Lei non lo sa, che io te ne ho già scritte un paio. Lei non lo sa, che io non mi stancherei mai di scriverti, e soprattutto non sa che lo faccio perché anche scriverti è un modo per non stare dentro di te, un modo per tenerti a distanza di sicurezza, per assicurarmi di vederti ma di non guardarti troppo a fondo, di non sentire troppo, di non amare troppo, di non vivere troppo. Codarda - mi dico.

Come vorrei amarti di più. Bugiarda - aggiungo. Ti amo tantissimo, non ti ho mai amato così tanto. In realtà avrei voluto amarti così anche prima. Prima della malattia. Prima di tutto. Ora non ho più voglia di camminarti a fianco, non ho più voglia di stare vicino a te e di voltarmi spesso dall’altra parte. Quella spanna tra me e te misura un oceano, e non ha senso, non ha nessunissimo senso. Esisto soltanto se mi custodisci tu, e tu esisti soltanto se io custodisco te. Io sono tu, tu sei me. Che egoista che sono stata, a rassegnarmi così presto a quest’indole mia che con le cose concrete, materiali, quelle fatte di sangue e di terra, proprio non riesce a starci. Io la tua lingua non l’ho mai parlata, non l’ho mai capita. Mi sentivo sempre altra, sempre diversa. I peli dove non avrebbero dovuto esserci, il sedere troppo grande o troppo piccolo, il seno immaturo, le caviglie pronunciate, le ginocchia strane. Non riuscivo a vederti bello e sano, mi dicevi cose che non avevano nessun senso, e così lasciavo andare. Facevo finta di non sentire, ignoravo te e - che stupida - ignoravo me. Volevo essere amata, e se tu non riuscivi a farti amare da nessuno, lo avrei fatto io al posto tuo. Ci ho messo così tanto tempo. A trovare l’amore, dico. A trovare pace, sicurezza, a sentirmi accettata, vista, apprezzata. Desiderata.
Mi piacerebbe essere magica, tornare indietro ai nostri vent’anni, e dirti che ti meriti tutto, meriti tutto tu, e merito tutto io. Perché io e te siamo una cosa sola. Vorrei dirti che gli occhiali sono spessi, ma carini. Che la peluria è normale, che non c’è niente di cui vergognarsi. Vorrei dirti che i capelli lisci erano belli, sì, ma anche ricci ti stanno bene. E che va bene se non ti vuoi truccare, che non devi farlo perché lo fanno tutte. Vorrei dirti che sei diverso, ti senti diverso, e forse è vero, sicuramente è vero, ma diverso è bello, è ricco, è unico, e io ti amo così come sei. Te lo dico ora e so che è vero, ma so che questo amore non è un cerotto, non guarisce e non cancella come una spugna. Piuttosto assorbe.
E poi vorrei sentirmi dire delle cose da te. Scrivimela tu, una lettera, ogni tanto. Usa queste mani piccole e tonde, lisce e olivastre. Usale per dirmi che non ti ho fatto troppo male, usale per assolvermi, dammi il perdono che ricerco ormai da decenni, e che non arriva, ma io non mi arrendo. Dimmi che non ho sbagliato tutto, dimmi che non ti facevo troppo male, quando da piccola decidevo che avremmo giocato da soli, io e te, che andava bene passare ore e ore sui libri, inventare giochi e parole e non condividerle mai con nessun’altra persona. Dimmi che non ti è costato troppo sopravvivere, quando ti ho nutrito troppo o troppo poco. Dimmi che ti andava bene stare all’ombra, essere lento assieme a me, lontano dai riflettori, lontano dal sole, sui gradini di marmo, freddi e duri.
Solo non mi chiedere perdono, mai, perché non c’è niente di cui io debba perdonarti.
Cose che ho letto, visto, sentito
Questo articolo dal titolo “Fellow Suffering” parla dell’esperienza di una medica oncologa con dei pazienti terminali. È l’uso delle parole, che mi ha colpita profondamente.
- è da leggere e rileggere.
La mia amica
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Fate ə monellə, vvb <3
Il corpo non perdona, perché nulla deve. È una mensola, ci appoggi ricordi, strumenti, polveri. Te ne prendi cura, se ne hai le forze, se ti hanno insegnato a farlo, se te lo permettono. Ma nulla può, se non obbedire ai venti dell’anima, nemmeno ce ne accorgiamo.
Io ti stimo molto, ti leggo molto. Ti auguro tutto il buono.