Il pericolo di una sola voce (fuori campo)
Fleishman is in trouble è un romanzo di Taffy Brodesser-Akner del 2019, di cui ho recentemente apprezzato l’adattamento per gli schermi con una miniserie TV su Disney+. Ne ho amato la regia, i colori, la storia (che conoscevo già), e soprattutto la narrazione veloce, mai banale, pungente. È una riflessione complessa sulle relazioni - romantiche e non - sui ruoli di genere, sulle crisi di mezza età, sull'ossessione per lo status sociale, sulla gentrificazione dei quartieri, sull'inferno degli affari immobiliari, e chi più ne ha più ne metta.
Attenzione: questo episodio di Fate ə monellə potrebbe contenere spoiler, se siete interessatə a leggere il libro e/o vedere la serie. Io però rischierei 👀.
Ecco la storia per sommi capi: Toby Fleishman è un medico quarantenne che sta attraversando un divorzio; un giorno di luglio, in una New York estiva e insostenibile, dove le preoccupazioni principali sembrano essere il corso di yoga, il prezzo delle angurie, e il campo estivo, Rachel, ex moglie e madre dei due figliə, sparisce. Non è stata rapita né uccisa. Lascia semplicemente ə bambinə a Toby, e non torna più a prenderlə.
La storia di Toby è narrata dall’amica storica, Libby Epstein, con una voce fuori campo soffocante, implacabile, che non mostra clemenza alcuna. Ex scrittrice di riviste maschili e ora mamma casalinga insoddisfatta nel New Jersey, Libby è affascinata dalle possibilità che si sono aperte a Toby dopo il suo divorzio, ed è forse anche un po’ invidiosa, di un’invidia che è sintomo di un malessere. Libby ha paura di invecchiare, e non per le rughe o il corpo cadente (non che se ne vedano, però), né per la menopausa - i cliché delle crisi di mezza età non trovano posto, in questa narrazione. Libby ritorna con ossessione ai giorni della sua giovinezza, e li guarda con nostalgia quasi compulsiva, perché erano giorni non prestabiliti, giorni non prescritti; nelle sue parole:
I didn’t realize the real power I had was that I had no obligations... I can’t believe how briefly I held it, and how quickly I gave it away.
(“Non mi rendevo conto che il vero potere che avevo era quello di non avere obblighi... Non riesco a credere quanto brevemente l'ho posseduto, e quanto rapidamente l'ho ceduto.” La giovinezza è una parentesi della vita molto breve.)
Mentre Libby cerca con ferocia una via di fuga dalla prevedibilità suburbana, inizia a considerare l’idea di non voler più tornare a casa. Vagando per la città, in cerca di ricordi e posti del cuore, la sentiamo dire:
I always returned to the museum of my youth, trying to find the last place I’d seen myself.
("Tornavo sempre al museo della mia giovinezza, cercando di trovare l'ultimo posto in cui mi ero vista". Sì, la giovinezza è troppo breve; forse è per questo che mi sono spesso trovata a scrutare dentro gli appartamenti in cui ho vissuto da giovane, in cerca della Paola di un tempo).
Ma divago. Libby e il suo museo della giovinezza non è quello di cui voglio parlare, non oggi, almeno. Voglio parlare della sua voce fuori campo.
La scelta narrativa (del libro e della serie TV) è quella di presentarci la storia - con la voce di Libby - soprattutto attraverso gli occhi di lui, di Toby: gli scorci di Rachel che vediamo - attraverso i flashback del loro matrimonio e del loro divorzio - la dipingono come una maniaca del lavoro, perennemente arrabbiata, ossessionata dal denaro, una genitrice invadente, un "mostro d’ambizione" (così la chiama lui). Nel frattempo, Toby si erge come il medico altruista e compassionevole, determinato a cambiare il mondo: è il bravo ragazzo sfortunato che si trova a raccogliere i cocci della sua vita, mentre prova a destreggiarsi tra gli appuntamenti online, le vite da salvare in ospedale, le indagini sul mistero della scomparsa di Rachel, e due bambinə a cui badare.
Bravi ragazzi e caccia alle streghe
È una narrazione unilaterale che persiste per tanti episodi: solo alla settima puntata (su un totale di otto), iniziamo a vedere le cose anche attraverso gli occhi di Rachel, ripercorrendo nuovamente le tappe della loro vita insieme. Scopriamo una Rachel che sì, ama il suo lavoro e la sua carriera, ma che in realtà si porta addosso un carico mentale e un trauma emotivo non indifferenti. Assistiamo al suo primo parto, alla violenza ostetrica che subisce da parte di un dottore, viviamo la sua depressione post partum, le sue paure da giovane mamma, e così la vediamo, furiosa e appassionata, buttarsi a capofitto nel lavoro per dimostrare che lei non è rotta, e che può ancora essere abbastanza. Il quadro completo che ne viene fuori è doloroso e devastante.
Guardando la serie, mi sono resa conto solo molto in là del fatto che mancasse una voce nel coro, e che per qualche motivo tardasse ad arrivare. Non solo, mentre la pellicola scorreva, e la voce di Libby si faceva sempre più calzante e precisa, io non mettevo in dubbio quello che Toby stesse raccontando. Era solo la sua versione dei fatti, sì, ma in qualche modo bastava, era abbastanza autorevole; Rachel se ne era andata, lasciando la prole da lui, così, d’improvviso, senza una spiegazione. Che razza di madre può fare una cosa del genere? - mi chiedevo - senza davvero rendermi conto del peso di questa domanda.
Quando la storia finalmente svolta, e Rachel si prende lo spazio che le spetta, mi si accende una lampadina in testa e mi accorgo di avere scelto una squadra per cui tifare quasi in automatico. Sto dalla parte di Toby, e non mi chiedo nemmeno il perché. Sicuramente l’espediente narrativo ne è stato complice, ma non posso che ammettere di aver sofferto di “himpathy” durante tutta la visione della serie. Himpathy è un termine che combina “him” (lui) ed “empathy” (empatia), per descrivere l'empatia che spesso in modo automatico riserviamo agli uomini e non alle donne. La parola è stata coniata dalla filosofa femminista Kate Manne per parlare in particolare dell’empatia inappropriata estesa a un perpetratore maschio in casi di violenza sessuale, molestie e altri comportamenti misogini. Secondo Manne, l’himpathy protegge gli autori di comportamenti misogini dal danno alla loro reputazione posizionandoli come “bravi ragazzi” vittime della “caccia alle streghe”. Di conseguenza, le esperienze traumatiche di quelle donne e le loro motivazioni per cercare giustizia vengono ingiustamente esaminate e spesso non credute. Manne definisce l’impatto di questo fenomeno sociale sulle donne “herasure”, un termine che combina “her” (lei) ed “erasure” (cancellazione).
Solo quasi alla fine della serie mi accorgo che Toby minimizza un episodio di violenza che Rachel subisce in un bar: a un evento di lavoro le alterano un drink con della droga (allo scopo di approfittare di lei sessualmente) e raccontando l’episodio Toby sostiene con grande leggerezza che “non le era successo nulla”, spiegando che era stata portata a casa da un collega. Non è la prima e non è l'ultima volta che sminuisce un'umiliazione o una violazione subita da sua moglie. Solo quasi alla fine della serie mi accorgo che Toby non le suggerisce di andare in terapia per stare bene, ma per aiutare lui, e la famiglia. Che non gli importa niente del viaggio trasformativo che potrebbe fare lei, se non nelle istanze in cui quel viaggio può avere anche un effetto su di lui, che non vede l’ora di riavere sua moglie (quella giovane, sana, piena di ideali e spinte di vita, non quella quarantenne, ferita, traumatizzata, e in preda a un esaurimento nervoso).
Fleishman mi ha costretta a chiedermi perché è stato così facile per me allinearmi alla narrativa di Toby, a vedere lui come l'eroe e Rachel come la cattiva. Non so se fosse intenzionale, ma c’è più di un espediente narrativo, nel libro e nella serie TV; c’è un tropo che è consolidato nelle storie che raccontiamo, che ci fa provare più facilmente compassione per il protagonista maschio, e ci spinge con più facilità a esprimere giudizi morali sulle donne. Abbiamo aspettative diverse su ciò che un uomo dovrebbe sopportare rispetto a ciò che pensiamo dovrebbe sostenere una donna. E quando si tratta di questioni legate alle sfide domestiche, alla famiglia e al matrimonio, ci aspettiamo sempre di più da una donna.
Cose che ho letto, visto, sentito
In questi giorni di malessere torno spesso alle serie che sono di conforto (i miei comfort shows); una di queste è Gilmore Girls (in italiano “Una mamma per amica”). Ho scoperto la newsletter della vita, Gilmore Women, scritta da due giornaliste che ogni settimana disquisiscono su tutto quello che non va nella serie (e di cose che non vanno, ce ne sono tante) e sul perché, nonostante tutto, continuano ad amarla.
Ho recuperato La mala educación, la playlist in cui Carolina Capria esamina testi e contenuti della cultura pop che ci ha formato: riuscirete ancora a cantare “La canzone del sole” dopo esservi resə conto che non fa altro che normalizzare episodi di violenza?
Sono riuscita a vedere un film per intero! Si tratta di Where the Crawdads Sing, e devo dire che mi è piaciuto parecchio, anche se mi è sorto un grande quesito che mette in discussione la trama stessa: in quale universo ha minimamente senso che l'emarginata numero uno di una città sia una donna bianca magra, convenzionalmente bella, tranquilla ed educata? Boh.
A giovedì prossimo (speriamo)! Frattanto, fate ə monellə!
Mi è piaciuta un sacco questa tua analisi della serie 🤍 Avevo iniziato a vederla la scorsa estate ma non stavo tanto bene e la storia mi generava malessere: ora potrebbe essere il momento di ripescarla.
Anche io sono alle prese con una "comfort serie" sto riguardando tutto Friends. Grazie per questi contenuti.