Con un occhio solo
Di privilegi, assicurazioni sanitarie, assenza dal lavoro, sistemi di supporto economico in Belgio e in Italia. Quanto costa avere il cancro?
Questa puntata contiene un piccolissimo spoiler sul film “We Live in Time”.
Niente che non si intuisca dal trailer, a ogni modo.
Quando il 20 ottobre 2023 ho ricevuto la mia diagnosi di cancro, il senologo che mi ha preso in cura mi disse che stava preparando per me un certificato medico di 12 mesi. Un certificato di malattia, per capirci. Ricordo distintamente che mi sono voltata verso mio marito e gli ho detto “ma è pazzo”, poi di nuovo verso il medico. “No ma che dice, facciamo fine dicembre 2023 e poi vediamo come sto”.
Ho capito subito dall'espressione del suo viso che tantə pazienti prima di me avevano avuto la stessa reazione. E immaginavo pure che tantə dopo di me avrebbero reagito allo stesso modo. Un anno senza lavorare? Ma siamo impazziti? Chi sono, io, senza il mio lavoro? Senza il mio guadagno, le cose che imparo. Senza la mia performance, pure. No, no, non scherziamo.
Il medico allora decise di assecondarmi, e circa tre mesi dopo il mio oncologo iniziò a scrivere certificati validi per tre mesi, di tre mesi in tre mesi. “Signora, le serve del tempo, me ne faccia fare uno più lungo.” La mia risposta non cambiava mai: “No, la prego, no.” Non so di preciso cosa mi passasse per la testa. Non è che volessi a tutti i costi tornare a lavoro eh. Cioè sì volevo, mi mancavano - e mi mancano ancora - tante cose del mio lavoro, ma dov'era la forza fisica e mentale? Dov'erano le energie per andare in ufficio, per seguire riunioni, per prendere appunti? Dov'era lo spazio per una cosa grande e invadente che però non parlava di cancro e di malattia, uniche tematiche della mia vita per mesi e mesi e mesi? Non c’era spazio, non c’erano energie, e i miei dottori lo sapevano bene. E così sono passati 12 mesi, 1 anno in malattia, senza lavorare, proprio come aveva predetto il mio senologo. Che sbadata che sono, ne sono passati quasi 16, di mesi, e se tutto va bene non tornerò a lavoro prima di maggio, marcando esattamente un anno e mezzo di sosta. Sosta dal viavai, dai colleghi, dalle scadenze, dal codice che non funziona, dal caffè lungo con lui. Sosta dalle sfide lavorative, dalle mie medaglie e dai complimenti - quanto sei brava, Paola!
Un paio di sere fa sono andata a vedere “We Live in Time”, mossa innanzitutto dalla mia crush super imbarazzante per Andrew Garfield e poi curiosa di sapere come viene narrata una storia di cancro in un set cinematografico. Curiosa anche di scoprire come mi avrebbe fatta sentire, cosa mi avrebbe fatto provare, ora che questa storia del cancro la conosco, ora che quasi la so recitare a memoria. Ho pianto un botto, ho pianto coi singhiozzi in alcune scene - rimango sempre stupita dal potere della rappresentazione. Ho pianto quando Almut, la protagonista donna del film, si è rasata la testa a zero, ho pianto quando diceva alla sua oncologa “va bene così, onestamente, non importa, va bene così”. Ho pianto quando si è guardata allo specchio e con gli occhi si cercava ma non trovava nessuno.

Un po’ per la trama e un po’ per le scelte narrative, questo è sicuramente un film pieno di perdita e di dolore, ma riesce anche ad aprire un paio di crepe, da cui entra un certo senso di pace, persino di serenità. La compostezza a cui aspiro da mesi, oramai, e che forse finalmente sta arrivando.
La cosa che più mi ha colpito nel film è la testardaggine di Almut quando decide di continuare a lavorare, anzi a fare molto più del solito, durante le cure per il suo cancro (che consistono per lo più di chemioterapia). Deve sicuramente fare i conti con la nausea, il vomito, i crampi, le occhiaie, le paure, il trauma, ma non molla. Non vuole mollare. E non molla perché sente che questa cosa qui, quella di lavorare, di creare, di non smettere di essere, di vivere, questa cosa qui lascerà un'impronta, e in quell'impronta potrà camminare soprattutto la figlia, quando non avrà più una mamma. Non in questa vita, non su questa terra, almeno.
I can't bear the thought of being forgotten
Non sopporto il pensiero di essere dimenticata
Lo dice al marito, in un momento di disperazione, si preoccupa di quello che lascerà, della sua eredità emotiva, di quella fatta di memorie e sentimenti.
”Chi si ricorderà di me, se morirò tra sei mesi, tra un anno?” Mando un messaggio a mio marito e vorrei rispondesse con “Tutti, amore mio, tutte le persone che hanno avuto il piacere di incontrarti, di viverti, di assaporare la gioia della tua vita e della tua presenza. Tutti, amore mio, io per primo. I tuoi amici, le tue amiche, le persone del tuo lavoro, chi ti legge, proprio tutti e tutte, amore mio.”
Invece mi risponde così: “Non morirai. Non ancora. Te lo proibisco”.
È spiritoso e coraggioso. Certe giornate vorrei avere il suo coraggio. Il suo cuore.
E così sono 16 mesi che non lavoro. Come Almut, ho opposto resistenza all’inizio, e come Almut, poi, ho mollato la presa e ho accettato il mio vivere per quello che era, un tempo di stasi, senza spazio per il lavoro. Un gran privilegio, poter essere malata senza preoccuparmi di lavorare, non pensate?
Come fai adesso, al lavoro? Mi chiedevano tuttə nelle prime settimane.
Ma ti metti in malattia? Ma per quanto puoi stare via?
E poi la domanda delle domande, quella che io ho imparato a chiedere alle persone che amo senza vergogna e senza mezzi termini - ti servono soldi?
Sarò in malattia per molto tempo, e no, grazie, non ho bisogno di soldi. Per fortuna vivo in Belgio, e per fortuna questa storia di cancro ve la racconto dal Belgio, e “per fortuna” qui si traduce in un sistema sanitario e di previdenza sociale che mi ha supportato per tanti mesi e che continua a supportarmi per molti altri. Mi chiedo cosa sarebbe successo se fossi stata in Italia, sono curiosa e faccio una ricerca sul web. Ora vi riporto quello che ho scoperto (c’è poco di poetico a parlare di soldi e assistenza sociale, ma c’è molto di politico e quindi se siete qui ve lo sorbite eheh):
In Belgio si fa una differenza tra persone impiegate e persone operaie - sono termini che detesto, ma per capirci parliamo di colletti bianchi e colletti blu (bleeeeah):
Impiegati: il datore di lavoro paga il 100% dello stipendio per il primo mese - questo è il mio caso.
Operai: primi 7 giorni: 100% dello stipendio pagato dal datore di lavoro; dall'8° al 14° giorno: 85,88% dello stipendio lordo; dal 15° giorno in poi: 25,88% a carico del datore + 60% dalla mutua assicurativa.
Dopo questo primo periodo coperto dall'azienda, l’assicurazione sanitaria pubblica paga circa il 60% dello stipendio lordo - il datore di lavoro può integrare la differenza se previsto dal contratto (io ho un signor contratto e la mia azienda integra la parte restante, altro grande privilegio). Si può stare massimo 1 anno in malattia con l'assicurazione sanitaria pubblica prima di valutare l’invalidità a medio o lungo termine - questo è lo stato in cui io mi trovo adesso, ricordate?
Ora passiamo all’Italia. In Italia non so se esiste la stessa differenza tra impiegati e operai, ma in sintesi e in linea generale ho capito che:
Dopo i primi 3 giorni (coperti dal datore di lavoro se previsto dal contratto), l'INPS eroga l'indennità di malattia; l'importo varia a seconda della durata dell’assenza:
Dal 4° al 20° giorno: 50% della retribuzione media giornaliera.; dal 21° al 180° giorno: 66,66% della retribuzione media giornaliera.
L'indennità ha un tetto massimo: circa €50 al giorno per stipendi fino a circa €2.100 lordi mensili e circa €70 al giorno per stipendi più alti.
Durata massima: 180 giorni per anno solare - esattamente la metà di quello che è previsto in Belgio. Quindi, volendo tirare le somme:
In Belgio l’indennità è più alta nel breve termine grazie alla copertura del datore di lavoro e l’assicurazione sanitaria pubblica copre il 60% dello stipendio fino a 1 anno. In Italia l’INPS paga per massimo 180 giorni, con percentuali più basse e un tetto massimo che può penalizzare chi ha stipendi più alti.
Non serve essere geni per capire che il Belgio fornisce migliori protezioni economiche.
E se non sei dipendente? E hai la partita IVA? Le cose si complicano un po’.
E le spese mediche? Quanto ti torna indietro dalla mutua? Quanto ti costa avere un cancro in Italia e quanto ti costa averlo in Belgio? E negli altri paesi?
Sono un sacco di domande e non ho ancora le risposte, ma vi prometto che mi metterò a raccogliere i dati, a studiarli, e vi informerò li dove ne sarò capace.
Intanto, mi viene in mente un detto siciliano che usiamo tanto noi persone isolane, e che in italiano è “piangere con un occhio solo” - solo che trovo abbia molto meno potenza in italiano.
A ogni modo, sono 16 mesi che piango, ma almeno piango con un occhio solo.
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho trovato super interessante l’ultimo numero di Ti spiego il Dato di
: “Il gender gap nella chiesa cattolica spiegato dai dati”.Ho finito di leggere “Manuale di caccia e pesca per ragazze” di Melissa Bank - un libro sorprendente, devo dire. Specie se si legge con gli occhi di chi scrive ;-)
Su Netflix ho visto (suggerito dalla mia amica Veronica!) “Outstanding: A Comedy Revolution”, un documentario che esplora la storia della stand up comedy LGBTQ+, considerando la sua importanza come strumento di cambiamento sociale negli ultimi cinque decenni. Molto interessante e bello!
Se avete esperienze di malattia a lunga durata e sistemi di assicurazione sanitaria e previdenza sociale, battete un colpo! Vi leggo sempre volentieri, e Fate ə monellə!
Mi colpisce sempre quando parli dell'assistenza sanitaria in Belgio. Mi sembra fantascienza, dall'Italia. Io ho vissuto le storture di un lutto, in Italia. Sono freelance, mi spaventa moltissimo la mia precarietà. E la mia solitudine. Per questo vorrei andare a vivere in un paese dove le tutele, sanitarie e non, sono migliori di qui.
Andava scritta questa newsletterina, grazie Paola.