C'è un tempo
Di campi scuola estivi e bacheche piene di parole. Una Paola piccola e saggia che mi ricorda che tutto ha il suo momento.
Ho un vago ricordo di un campo scuola fatto da ragazzina, uno di matrice cristiana cattolica. Mi ricordo una delle attività di quei giorni in montagna con sorprendente facilità. Eravamo in tantə, non più bambinə ma non ancora ragazzinə, un’eta davvero strana, quella delle mutazioni, dei passaggi di rito, l’eta in cui le persone grandi cominciavano a dirci le cose, però si vedeva benissimo che cercavano parole alternative, linguaggi inventati sul momento, incespicando, con toni di voce che sforzavano di adattarsi a un divario troppo importante per essere ignorato. Una delle attività, dicevo, era quella di riflettere sul sacramento della confessione. C’era un esercizio, in particolare, che prevedeva una passeggiata con un sasso in mano, un sasso che portavamo dentro al confessionale, e che dovevamo avvolgere con della carta durante la confessione. Un sasso che poi, dopo la confessione, doveva risultare più leggero, più facile da sopportare, più semplice da sostenere tra le mani.
Ora, non me lo ricordo se effettivamente il sasso si faceva più leggero, non lo so, se l’esercizio mi riusciva. Passare attraverso la confessione dei miei peccati rendeva la passeggiata più piacevole, meno faticosa? Chissà. Che poi avrò avuto più o meno dieci, undici anni, che peccati potrò aver mai fatto, a quell’età? Mi rendo conto ora, molti ma molti anni dopo, che forse il trucco dell’esercizio era la sosta: l’essersi fermatə, un po’, dentro il confessionale, a dare un nome alle cose, a guardarsi dentro, a riposare, poggiando le mani sulle gambe, mettendo il sasso da parte, prima di riprenderlo in mano e avvolgerlo con della carta argentata. È quello che ultimamente mi succede con la scrittura. Questa scrittura orizzontale che compongo a letto, tra mal di stomaco e spossatezza, nella settimana in cui la mia chemioterapia è passata da 3 grammi a 3.3 grammi al giorno.
Ripenso con tenerezza a quegli anni lì, quelli in cui la mia educazione cattolica mi ha insegnato tanto - ad avere fede, a cercare la speranza, ad amare profondamente, ma mi ha anche tolto tantissimo. Ripenso con tenerezza alla bimba di quegli anni, alle parole che scrivevo allora, con una scrittura più giovane che con grande difficoltà cercava parole giuste per descrivere cose troppo grandi - spaventose, a tratti, e troppo belle in altri momenti. Così belle che dovevo distogliere lo sguardo. Così belle che era come guardare il sole in faccia. Così belle che potevo solo fissarle su carta, da qualche parte, o in un angolino della mente, lo stesso angolino in cui ho scoperto da grande essersi accumulato un tesoro incredibile.
È un angolo fatto di pezzi di poesia, di passaggi letterari, di canzoni e note. Se chiudo gli occhi provo a vederlo, crema e sabbia, con qualche tinta di un pallido giallo, all’orizzonte. È l’angolo della mia testa in cui recito a memoria le poesie della scuola elementare, quello in cui mi ricordo il giorno in cui - guardandomi allo specchietto dell’auto di papà, dal lato passeggerə, dietro - mi sono detta per la prima volta “cuore tu vieni, dove io vado”. È l’angolo in cui sono riuscita a dare un nome alle seicentotredici tristezze di Brod, tutte quelle emozioni, tutte quelle tristezze, quelle singole, uniche tristezze. La tristezza dell’amore senza scioglimento. È l’angolo in cui le parole del Qoèlet scorrono senza fatica dentro ai miei occhi, recitando una litania che sa di pomeriggi lenti, di passeggiate in montagna, di sassi da trasportare, ed esercizi di fede:
Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttar via.
Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Dove sei, Paola che passeggi tra i monti, in Sila, portando sassolini in mano mentre provi ad allenarti all’amore? Dove sei andata?
C’è un tempo per ogni cosa, mi sussurri dalla tenerezza della tua pubertà. Guardi quell’angolo della mente, quell’immensa bacheca lì, piena di spilli e di foglietti, lo guardi con stupore - eppure lo so che sei a casa, in quel posto - e ogni tanto cacci fuori una frase, un suono, un’immagine. Lo vedo, che provi a portare alla luce, al tempo presente, la frase giusta al momento giusto. Mi vuoi bene, lo so. C’è un tempo per ogni cosa, continui a dirmi. Sai bene che non capisco, sai bene che non voglio capire. Me lo ripeti con calma, con la pazienza che solo le persone piccole sanno avere, le labbra sporche di gelato al cioccolato (non hai ancora scoperto il gusto fragola, quello arriverà più tardi). È stato un anno difficile, per noi, provo a spiegarti. E quando ci sembrava di poter respirare di nuovo, siamo dovute tornare sott’acqua, ti dico. Te lo dico usando parole semplici, e tu mi guardi come mi guardava mio nipote quando era più piccolo - lo so cosa vuoi dirmi. Sei piccola, non sei stupida. Le cose le capisci, se te le spiego. E se non le capisci, te le spiego di nuovo. Ma qui, delle due, sembro essere io a non capire, vero? Vedo come arricci il naso, i tuoi occhioni scuri rivolti al cielo (questa cosa di girare gli occhi, quasi a farli entrare dentro la tua testa, in alto, diventerà un’abitudine, ma tu questo ancora non lo sai). Ti volti, torni alla bacheca. Fai finta di cercare un’altra meraviglia, un’altra catena di parole, ti osservo. Mappi latitudine e longitudine di anni e anni di pensieri e sentimenti, l’indice della mano destra che accompagna i tuoi occhi curiosi, decine e decine di parole, centinaia di lettere. Inciampi, una volta o due, ma poi torni decisa a quel foglietto lì: c’è un tempo per ogni cosa. E non c’è presunzione, non c’è arroganza, non ti arrabbi, non ti infastidisci. Mi mostri le parole, come fosse la cosa più semplice del mondo, una verità così limpida da non richiedere spiegazione alcuna. Ti stringi nelle spalle, quelle piccole che hai, le labbra sporche di gelato al cioccolato strette in una morsa come a dirmi - non è colpa mia. E io lo so. Che non è colpa tua.
Non posso fare altro che arrendermi. Hai ragione tu. Piccola, perfetta, tu.
Io mi sforzo di afferrarle tutte assieme, queste cose della vita. Ingorda, affamata, desiderosa. Ma tu mi insegni la pazienza. Osservo l’assenza di questi giorni complicati, ed è un’assenza che detesto. Tu mi ricordi - o forse me lo insegni? - che quello non è altro che amore. Mi confondo, tra la sensazione di non riuscire a stare a galla, e la voglia matta di tornare a stare bene. Nella confusione tu conservi al sicuro le mie parole, le fai brillare, le mantieni splendide e vere. Allineate, su una bacheca che sa di salvezza, abbondanza, dove non c’è spazio per i vuoti, ma si può stare in silenzio finché fa buio.
Ti guardo, Paoletta. Ti vedo piccola e vedo tutto quello che sei in grado di contenere. Vedo le meraviglie che hai costruito. Vedo i tuoi capelli lisci, lunghi, i tuoi primi occhiali da vista. Le tue guanciotte. Vedo che non hai mai smesso di amarmi, di preoccuparti, di prenderti cura. Ti vedo cercare le parole, estrarre conigli e stupori da cilindri, uno dietro l’altro. Penso a quante volte non sono stata in grado di accarezzarti, mentre tu facevi le magie, e nemmeno lo sapevi.
Assieme a te, allineatə e splendenti, vedo tuttə ə bambinə del mondo. E di una cosa sono sicura, di una soltanto: che un giorno saranno grandi, e avranno bisogno delle loro bacheche piene di appunti. Di punti di ancoraggio, di bussole per ritrovare la rotta, di sassolini e carte argentate. E così lo sento, improvvisamente lo sento, che tuttə ə bambinə del mondo sono cosa mia. Una roba che mi riguarda, che mi appartiene, che cambia la mia vita. Una cosa che merita parole nuove, tempi diversi, un’attenzione misurata e precisa.
C’è un tempo per ogni cosa, mi sussurri dalla tenerezza della tua pubertà. Devo crederti, perché, tra le due, quella grande sei tu. Capace di contenere universi, mentre giochi a inventare parole e mangi gelato al cioccolato.
Cose che ho letto, visto, sentito
Ancora lettere, stavolta quelle tra Cesare Pavese e Bianca Garufi, la bellissima coppia discorde. È stato con Pavese, molto tempo fa, che mi sono resa conto che una cosa che mi piace ancor più della letteratura finita, tonda, perfetta, sono i rimasugli, le parole spezzate, i bigliettini, le opere incompiute. “non credere alle soluzioni, alle decisioni, alle grandi crisi; credi ai giorni, alle ore, ai minuti. tanto, per grave che sia una crisi, una decisione, ti tocca pure vivere le ore, i giorni e i minuti, e questi li vivi naturalmente.”
Cerco tanta musica che mi dia sollievo, in queste settimane lente e paurose. La trovo in Cat Power, che amo profondamente. Ecco un video vecchissimo di lei che canta Remeber me: You remember when you were sick / You were cripple and you were lame / I stood by your bedside / Til you were on your feet again.
Il sonetto XXIX di Pablo Neruda, da questa edizione dei cento sonetti d’amore che custodisco con grande cura: “Sei del povero Sud, di dove viene la mia anima:
nel suo cielo tua madre continua a lavar biancheria con mia madre. Per questo ti scelsi, compagna.”
Piccolə o grandi, mi raccomando - fate ə monellə ❤︎