Arraggiata
Le mie viscere sono fornace, accolgono onde di furia incandescente. Questo mal di pancia sa di raggia, è raggia. Dice cose che urlano vendetta.
Aceddu ‘nta iaggia nun canta p’amuri ma canta pi raggia.
L’uccello in gabbia non canta per amore ma per rabbia.
- detto siciliano -
Siamo sul marciapiede, io e lui. Lui in questo contesto qui è A. Siamo a Bruxelles, in un posto come un altro, che tanto questa città è grande, io mi perdo e non so mai dove sono. Stiamo andando verso la metro, una metro qualunque in un quartiere qualunque. Improvvisamente vedo un uomo e una donna, anzi li sento prima ancora di vederli, parlano in un francese abbastanza concitato, io però di francese non capisco niente. È soprattutto lui a gridare. Lo vedo avvicinarsi a lei, e per ogni passo che fa nella sua direzione, lei ne compie tre indietro. La vedo arretrare, sbilanciare il corpo, ha paura, è evidente. Rimango nella loro orbita, costringo A. a stare con me - non mi lascerebbe mai da sola, in ogni caso. L’uomo si accorge che li sto fissando, che sto fissando soprattutto lui.
“se non la lasci in pace chiamo la polizia”
gli dico. E perché diamine non mi costringo a imparare il francese, porca miseria? Ovviamente non capisce, continua a fissarmi. Non mi fa paura.
“che cosa cazzo guardi, idiota? che cazzo guardi, ah?”.
Mi sta scoppiando il cuore. A. mi prende per un gomito, poi mi mette un braccio intorno alle spalle. Mi vuole difendere, lo so, ma io non voglio essere difesa. Voglio spaccare la faccia a quest’uomo. Quest’uomo che continua a urlare verso di lei. Lei accenna un sorriso, nella direzione di A., lo vede che mi sto incazzando, forse vuole dire:
“sto bene, andate, non è niente”
A. rallenta, io mi giro, continuo a guardare l’uomo negli occhi, continua a dire cose che non capisco, io continuo a chiedergli che cazzo guarda. A. mi stringe ancora un braccio intorno alle spalle, mi vuole zittire, lo so, vuole scendere i gradini della metro, tornare alle nostre vite serene. Se tocca lei tocca anche me, gli voglio dire. Finisco per dirgli, invece:
“non la lascio da sola con quello lì”
E A. mi chiede:
“vorrei capire se si conoscono, lui la sta importunando, sono estranei?”
Lo chiede a me, all’aria tra noi due che improvvisamente sa di spazzatura e olio fritto. “Non capisci un cazzo nemmeno tu”, gli vorrei dire. “Sono sicura che si tratta di una coppia, lui molto probabilmente dice di amarla, poi magari un giorno beve un po’ di più, o è arrabbiato perché il lavoro è una merda, ma finisce sempre per prendersela con lei, oppure è lei che ha sorriso a un suo amico e questa cosa non la doveva fare, e forse dopo torneranno a casa, in un appartamento piccolo e buio in un quartiere qualunque di Bruxelles e lei piangerà, e lui forse sarà ancora più violento, non gli basterà più alzare la voce, alzerà anche le mani”.
Non gli dico niente, non ne ho le forze.
Non importa come finisce questa storia, non importa in questa sede qui, perché questa storia non parla di me. Non ero io la vittima, non lo sono stata. A. mi ha stretto un po’ di più, poi non so se ne è accorto, ma aspettando la metro, una volta scesi i gradini, io ho abbassato un po’ la testa e ho pianto un pochino. Giusto un po’, quello che mi è bastato per non esplodere, per non tornare indietro, afferrare quell’uomo per la giacca, e continuare a urlargli in faccia di andarsene a fanculo.
Sulla metro ho sentito il cuore rallentare, ci siamo sedutə, e A. improvvisamente ha detto - e non è la prima volta che gli sento pronunciare queste parole - ha detto, non a me, ma quasi a un fantasma dall’altra parte della metro, ha detto:
“prima o poi mi fai fare a botte con qualcuno, tu; prima o poi mi fai ammazzare”
“prima o poi ammazzano me”
gli ho risposto. “Questa cosa qui non è divertente”, le sue ultime parole prima di cambiare definitivamente argomento. “no, non lo è”, ho pensato tra me e me. Ma tu sei un uomo, e allora che cazzo ne sai, tu? Vorrei prendermela un po’ con lui, so di averne il diritto, ma è lui che non se lo merita.
Torniamo a parlare de La Rappresentante di Lista. E un po’ gliene sono grata. Ma solo un po’. Il nostro sabato sera era stato bellissimo, fatto di musica, amore, focaccia, birra analcolica buonissima. La domenica mattina si era improvvisamente sporcata, di spazzatura e odore di olio fritto, di urla, di sguardi violenti, prevaricatori, del mio mal di pancia.
Sono mesi che mi trascino dietro questo mal di pancia. È diverso da quello che sentivo fino a qualche tempo fa. Qualche tempo fa, quando ho finalmente detto ad A. - e se a questo punto della lettura state pensando “povero cristo si deve sopportare tutto lui”, forse questa newsletter non è per voi, e forse dovete pure farvi qualche domanda - quando finalmente ho detto ad A.:
“quando vedo più di due uomini venire nella mia direzione, o semplicemente orbitare intorno ai miei spazi, ho paura. Fino a due è più o meno ok, da tre in poi mi viene il mal di pancia, irrigidisco ogni muscolo, mi fa male la schiena, a volte sudo un po’. È ansia, lo so perché la riconosco, ma è anche molto di più”
A. ci è rimasto male. “Cry me a fucking river”, direbbero le persone anglofone.
Ci ha pensato un attimo e poi mi ha chiesto conferma:
“quindi quando esco con altri uomini, siamo solo noi uomini, io e i miei amici, di notte, in giro per la città, ci sono donne che ci vedono arrivare e hanno paura di noi?”
Sembrava quasi nauseato all’idea. “certo che sì” - gli ho risposto. “come è possibile che tu non lo abbia mai realizzato prima?”. Solo a parlarne mi era venuto il mal di pancia. Quel mal di pancia che ho imparato a riconoscere nel tempo, negli anni, che si è sedimentato e ha lasciato impronte e solchi profondi, un dolore che si è fatto profondo, un dolore che ribolle, che sa di fornace e di fuoco. È quasi parte di me, e mi consuma ogni pensiero razionale, mi fa guardare un uomo negli occhi, in una domenica mattina a Bruxelles, un uomo che so essere violento, me lo fa guardare dritto in faccia mentre gli chiedo “che cazzo guardi? ora chiamo la polizia”. Come se poi fossi sicura che la polizia ci aiuterebbe.
Non sono così pazza da mettere la mia vita a rischio, non vi allarmate. Ma io questo mal di pancia devo legittimarlo, devo guardarlo in faccia e dirgli che è giusto e sacrosanto, ma che deve anche lasciarmi respirare un po’ per permettermi di vivere e di non venir pestata a sangue su un marciapiede qualunque di una qualunque Bruxelles. Devo trovargli un posto. Devo trovare un posto per questa raggia incredibile che mi fa ribollire il sangue, che a tratti mi fa persino perdere lucidità.

Perché questo è, di questo si tratta, è raggia, limpida e nitida, devastante, furiosa. La sento ogni volta che pubblico un pezzo che parla di donne e di lotte femministe, e un uomo qualunque, uno a caso, viene a dirmi che sono di parte, che manipolo la ricerca, che se non ne capisco di scienza devo stare zitta. La sento ogni volta che Donata mi parla della sua scrittura, delle sue ricerche, del suo lavoro. La sento ogni volta che qualcuno decide di strillare ai quattro venti che “il femminicidio non è un’emergenza! che ci sono cose più importanti, più urgenti, più critiche!”. E si capisce anche da lì, che non hanno capito un cazzo nemmeno loro. Per almeno due motivi. Perché lo sappiamo, che le piaghe sociali della violenza di genere e del femminicidio non sono un’emergenza, ma piuttosto un fenomeno sistemico e radicalizzato. Un liquido che ha preso la forma del contenitore, per capirci. E perché il fatto che ci siano anche altre lotte da combattere non toglie nessuna urgenza a questa qui. Ma tanto queste sono solo scuse, e io sono stanca di giustificare punti di vista diversi che usano dati, statistiche, e altre cause di giustizia sociale perché ammettere la verità è davvero troppo scomodo. E la verità è che per tante persone là fuori, e soprattutto per tanti, tantissimi uomini, la vita delle donne non è preziosa abbastanza per essere custodita, rispettata. Siamo corpi di second’ordine. Siamo vite di second’ordine.
'Sta femmena 'e niente mo vò tutte cose, mo vò tutte cose
E tene na rraggia ca nun arreposa, ca nun arreposa
Ha dato la vita e ce l'hanno luata nu milione 'e vote
Vestuta 'a puttana e vestuta da sposa
Persone che leggete, se siete ancora qui, se non vi siete già arrese, ditemi che fare di questa raggia. Ditemi se è un bene che se ne stia così a ribollire, o se devo cercare un modo per metterla a tacere, per abbassare il volume.
Il patriarcato ha sete di sangue, e io non voglio giocare il suo gioco.
Cose che ho letto, visto, sentito
Ho visto “Challengers”. Mi è piaciuto, ma ho tanti dubbi su tante cose. E poi posso dirlo? Che palle vedere sempre gli stessi attori fare tutti i film. E bastaaaaaa!
Ho letto “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia”. Un libro prezioso e devastante. Vorrei tanto averlo scritto io.
Oggi vi consiglio una newsletter, si chiama
e ci racconta il mondo penitenziario in Italia.
Fate ə monellə! Ci sentiamo presto.
mai come in questo momento storico credo che la rabbia sia necessaria. non so se per scagliarsi contro il sistema, perché non so davvero quanto si scalfirebbe. ma per sentirsi vivi, per sapere che gli eventi del mondo ancora ci infliggono pene, che ancora siamo in grado di sentire come ingiuste. e che vomitiamo fuori anche solo con le parole, per vedere se riusciamo a farla sentire anche agli altri. perché la rabbia solitaria, da tastiera o da scontro faccia a faccia poco serve, se non diventa movimento. coscienza collettiva. risurrezione.
Ti consiglio di leggere il saggio La rabbia ti fa bella di Soraya Chemaly, per me è stato illuminante!